LE MANSIONI EX ART. 2103 COD. CIV. COME REINTERPRETATE DAL JOBS ACT E DALLA GIURISPRUDENZA DI MERITO – Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, 30 settembre 2015, n. 8195, est. Sordi

martello microfoni

Il provvedimento reso dal Tribunale romano rappresenta un interessante arresto giurisprudenziale sul criterio di equivalenza delle mansioni attribuite al lavoratore ex art. 2103 Cod. Civ. come modificato dall’art. 3, d.lgs. n. 81 del 2015 *.

Rapporto di lavoro – Ius variandi – Mansioni inferiori – Art. 13, legge n. 300 del 1970 – Art. 3, d.lgs. n. 81 del 2015 – Applicabilità ratione temporis – Ammissibilità
Con sentenza n. 8195 del 30 settembre 2010, il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, si è pronunciato in merito al caso di una lavoratrice che, da un lato, aveva impugnato il rientro dal distacco disposto dalla Fondazione datrice di lavoro presso una società di capitali e, dall’altro lato, contestato l’illegittimità del comportamento tenuto dalla medesima Fondazione successivamente al rientro e in sede di nuova attribuzione della mansioni.
Con riferimento a quest’ultimo punto, in particolare, la ricorrente aveva lamentato, con riguardo al periodo 20 maggio 2014 – 15 gennaio 2015, che ella sarebbe stata lasciata “inoperosa” e, con riguardo al periodo successivo al 15 gennaio 2015, che le sarebbero state assegnate mansioni inferiori rispetto a quelle precedentemente svolte presso la società distaccataria.
Orbene, sul primo punto il Tribunale romano ha ritenuto che il comportamento della Fondazione distaccante non fosse contrario alle norme di legge che disciplinano il distacco, id est l’art. 30 del d.lgs. n. 276 del 2003, per ciò che l’interesse della Fondazione al distacco medesimo era venuto meno in ragione della prossimità al pensionamento di un altro dipendente che la ricorrente avrebbe, poi, dovuto sostituire. Esigenze organizzative, queste, la cui obiettività e fondatezza hanno consentito non solo di concludere nel senso che la condotta della datrice di lavoro fosse conforme alle norme di legge rilevanti, ma anche di escludere la sussistenza di una supposta condotta discriminatoria ricollegata al mancato rientro di altri dipendenti parimenti in distacco.
Più interessante è, invece, la pronuncia resa dal Giudice monocratico sul secondo punto e con riferimento alle mansioni svolte successivamente al 15 gennaio 2015. Infatti, in relazione a questo periodo e sopratutto al periodo successivo al 25 giugno 2015, la Fondazione convenuta ha eccepito che la ricorrente non avrebbe potuto lamentare alcun demansionamento stante l’entrata in vigore, in pari data, della novella legislativa contenuta nell’art. 3, d.lgs. n. 81 del 2015, il quale ha modificato in parte qua l’art. 2103 Cod. Civ.. A tal proposito, il Tribunale di Roma, muovendo dal presupposto per cui il previgente testo della norma in esame consentiva una variazione “a condizione che le nuove mansioni siano «equivalenti alle ultime effettivamente svolte»” mentre il testo “attualmente in vigore permette l’assegnazione di «mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte»”, ha ritenuto che, a far tempo dal 25 giugno 2015, “il giudizio di equivalenza … deve essere condotto assumendo quale parametro non più il concreto contenuto delle mansioni svolte in precedenza dal dipendente, bensì solamente le astratte previsioni del sistema di classificazione adottato dal contratto collettivo applicabile al rapporto”,
Da qui la duplice conclusione che il giudizio di legittimità della variazione delle mansioni deve essere condotto a prescindere da ciò “che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente” e che il Legislatore del 2015, così disponendo, ha conferito ai rapporti di lavoro privati, parallelamente a quanto sancito dall’art. 52, d.lgs. n. 165 del 2001 per il pubblico impiego privatizzato, preminente rilievo al solo “criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita”, impedendo così al giudice di “sindacare in concreto la natura equivalente della mansione”.
Ciò posto, il Giudice romano ha ritenuto che le suesposte conclusioni potessero trovare applicazione anche al caso in esame. Infatti, premesso che “il demansionamento del lavoratore costituisce una sorta di illecito «permanente», nel senso che esso si attua e si rinnova ogni giorno in cui il dipendente viene mantenuto a svolgere mansioni inferiori rispetto a quelle che egli, secondo legge e contratto, avrebbe diritto di svolgere”, la variazione delle mansioni deve essere valutata con riferimento alla disciplina legislativa e contrattuale vigente “giorno per giorno”, di modo che “l’assegnazione di determinate mansioni che deve essere considerata illegittima in un certo momento, può non esserlo più in un momento successivo”.
Pertanto, accertata la riconducibilità delle mansioni svolte dalla ricorrente successivamente al 25 giugno 2015 al livello di inquadramento cui la medesima lavoratrice apparteneva all’epoca dei fatti di causa, il Tribunale di Roma ha rigettato la domanda di risarcimento danni in relazione al menzionato periodo.
La normativa introdotta dal Jobs Act, nella parte in cui erge gli “assetti organizzativi aziendali” ad elemento sufficientemente idoneo a determinare una variazione delle mansioni assegnate ab origine al dipendente, traccia una netta linea di demarcazione con la risalente, ma pur sempre autorevole, giurisprudenza di legittimità secondo cui la lesione del bene giuridico “professionalità”, nella ratio del previgente testo dell’art. 2103 Cod. Civ., “non è giustificabile neppure per comprovate esigenze organizzative e tecniche, che la norma considera solo in relazione al trasferimento da una ad altra unità produttiva”.
Tale linea di demarcazione diventa tanto più netta, quanto più si consideri la rigorosità del procedimento logico seguito dal Tribunale romano nel fare applicazione del criterio dell’equivalenza formale al caso in esame. Procedimento, questo, ispirato alla fedele applicazione, in primo luogo, del principio costituzionale enunciato dal comma 2 dell’art. 101 Cost., a mente del quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” e, in secondo luogo, del disposto contenuto nella prima parte dell’art. 12 delle Disposizioni preliminari al Codice Civile, a mente del quale “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”.
Giunti a questo punto, resta da chiedersi quale sia la sorte del bene giuridico della professionalità del lavoratore e, cioè, se quel bene può considerarsi ormai espunto dall’ordinamento, ovvero se ne costituisca comunque parte immanente. A tal riguardo, non mancherebbero di certo le argomentazioni puramente giuridiche per considerare la professionalità come un diritto personale, acquisito e sviluppato nel tempo dal dipendente in virtù di un percorso formativo, come tale riconducibile nell’alveo di un principio costituzionale fondamentale, qual è quello enunciato dal comma 2 dell’art. 3 Cost., nella parte in cui sancisce che è compito della Repubblica Italiana “rimuovere gli ostacoli … che … impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.
“Ai posteri l’ardua sentenza”.

Francesco Marasco

* Per una disamina approfondita del tema delle mansioni alla luce del c.d. Jobs Act, corredata da autorevoli arresti giurisprudenziali, si vedano i preziosi contributi raccolti nel volume a cura di Iolanda Piccinini, Antonio Pileggi e Paolo Sordi, “La nuova disciplina delle mansioni dopo il Jobs Act”, edito da Edizioni LPO S.r.l.s., acquistabile al seguente link: http://www.lpo.it/mansioni/Modulo_acq_Mansioni.pdf

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