RITO FORNERO E APERTURA DEL FALLIMENTO – Tribunale di Latina, Sezione Lavoro, 26 febbraio 2015, n. 529, giud. Gatani

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E’ inammissibile, in ragione della sommarietà del rito, il ricorso proposto ex art. 1, comma 47, L. n. 92 del 2012, nel caso in cui si chieda, invocando l’applicabilità dell’art. 2112 c.c., l’accertamento della costituzione di un diverso ed ulteriore rapporto di lavoro con un soggetto terzo rispetto al formale datore di lavoro. (Massima a cura di Iolanda Piccinini e Fabrizio Mancini)
Ai sensi del combinato disposto dell’art. 305 c.p.c. e dell’art. 43, comma 3, L. Fall., così come interpretato dalla Corte costituzionale, l’apertura del fallimento determina l’interruzione automatica del processo nei confronti del fallito e degli altri creditori, parti nel processo interrotto, mentre tale effetto, per il terzo estraneo si determina dalla conoscenza effettiva dell’avvenuto fallimento; conseguentemente solo da tali momenti inizia a decorrere il termine trimestrale per proseguire o riassumere il processo. (Massima a cura di Iolanda Piccinini e Fabrizio Mancini)

La pronunzia in oggetto (denominata “sentenza” erroneamente, in quanto trattasi sostanzialmente di un’ordinanza emessa all’esito della prima fase del c.d. rito Fornero) affronta due questioni di attualità e interesse.
Il caso riguardava un lavoratore che aveva impugnato, con il rito Fornero, il licenziamento intimatogli da una società, poi fallita, chiedendo la reintegrazione disgiuntamente e/o solidalmente nei confronti del precedente datore di lavoro e della nuova società ritenuta cessionaria, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2112 c.c..
La seconda società, nel costituirsi in giudizio, preliminarmente chiedeva che fosse dichiarata l’inammissibilità o comunque il rigetto del ricorso, stante l’impossibilità di applicare i commi 48 e ss. dell’art. 1 della Riforma Fornero, poiché il lavoratore aveva chiesto l’accertamento della costituzione di un diverso e ulteriore rapporto di lavoro con una società terza rispetto al formale datore di lavoro che aveva comminato il licenziamento.
Sul punto, il Giudice adito ritiene che la domanda proposta dal ricorrente confligga con lo spirito e la natura del rito speciale introdotto con la Riforma Fornero, rito che si caratterizza per la sommarietà dell’accertamento, mentre la valutazione delle richieste del lavoratore (ruotanti intorno all’applicabilità dell’art. 2112 c.c. e alla conseguente responsabilità solidale delle due società) richiederebbe un’istruttoria lunga e complessa, essendo contestata proprio l’esistenza di un’operazione di trasferimento o di questioni relative alla qualificazione del rapporto”: nel caso di specie, tuttavia, non si verteva circa la corretta qualificazione del rapporto di lavoro, bensì sulla titolarità/imputazione dello stesso (conf. Trib. Milano 17.7.2014, ad avviso della quale “la problematica della qualificazione debba riguardare unicamente il rapporto tra le stesse parti tra cui è intercorso il rapporto che ha portato all’atto impugnato e non tra una di esse e un soggetto terzo”.
In proposito, come noto, è assai discussa l’applicabilità della nuova procedura per questo tipo di questioni (si noti che il comma 47 parla proprio di “questioni” e non di “domande”).
Inoltre, nel giudizio in commento, si costituiva anche la curatela della società datrice di lavoro, la quale rilevava che la dichiarazione di fallimento era intervenuta molti mesi prima dell’iscrizione a ruolo del ricorso del lavoratore e, dunque, doveva considerarsi decorso il termine trimestrale previsto dall’art. 305 c.p.c.; conseguentemente, alla luce del disposto di cui all’art. 43, terzo comma, della L. Fall. – comma introdotto dal d.lgs. n. 5 del 2006, che ha stabilito l’automatica interruzione del processo a seguito dell’apertura del fallimento – da tale data inizierebbe a decorrere il termine trimestrale per la prosecuzione/riassunzione del processo. Pertanto, il ricorso sarebbe, perciò, inammissibile/improcedibile.
Il Giudice, richiamando le pronunzie della Corte costituzionale del 2010, la n. 17 e la n. 261, oltre a precedenti di merito, di legittimità, nonché ulteriori provvedimenti della Corte costituzionale, ritiene inammissibile la domanda del ricorrente.
Invero, dalla lettura del provvedimento del Tribunale di Latina non si ricava se il lavoratore figurasse o meno tra i creditori istanti e partecipanti alla procedura che aveva condotto alla dichiarazione di fallimento del datore di lavoro, né si riferisce in merito ad una eventuale successiva conoscenza, da parte del lavoratore, della circostanza dell’apertura del fallimento.
Dalla decisione in commento sembra che il dies a quo del termine trimestrale sia fatto partire dalla dichiarazione di fallimento ma tale soluzione appare condivisibile solo nell’ipotesi in cui il lavoratore abbia partecipato a quel giudizio.
La questione della tempestività o meno della riassunzione, a seguito di sentenza dichiarativa di fallimento, il cui mancato rispetto comporta l’estinzione del processo, come si sa, si poneva in termini diversi prima dell’introduzione del comma 3 all’art 43 della L. Fall..
Successivamente all’intervento legislativo, la Corte costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del combinato disposto dell’art. 305 c.p.c. e del terzo comma dell’art. 43: la Corte, nel dichiarare manifestamente infondati i dubbi, ha affermato, richiamando gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale in materia di interruzione del processo civile, il principio secondo il quale, nei casi di interruzione automatica del processo, il termine per la riassunzione, per il soggetto estraneo al processo interrotto, decorre non già dal giorno in cui l’evento interruttivo si è verificato, bensì dal giorno in cui esso è venuto a conoscenza della parte interessata alla riassunzione (cfr., in tema, Cass. 7.3.2013, n. 565; Trib. Roma 2.4.2014).
Detti principi devono, pertanto, trovare applicazione anche nel processo fallimentare.
In particolare, è proprio il nuovo terzo comma dell’art. 43 che – rubricato “Rapporti processuali” e inserito nel Capo sugli effetti del fallimento e nella Sezione sugli effetti del fallimento nei confronti del fallito – persegue la finalità di dare certezza ed accelerare la procedura, per evitare la tentazione della parte interessata alla prosecuzione del processo (e cioè di qualunque processo in cui il fallito è parte), ma nel frattempo fallita, di “nascondere” questa notizia. E’ dunque evidente che la detta disposizione si riferisce esclusivamente alle cause già pendenti al momento del fallimento.
La modifica legislativa non ha risolto la questione del terzo estraneo, in quanto per lui l’effettiva conoscenza avviene in un momento diverso (e i dies a quo possono essere diversi per tutti gli altri creditori).
Se è indubbio che la dichiarazione di un avvenuto fallimento rilasciata in corso di udienza produce tale effetto, non può escludersi che un’efficace consapevolezza possa conseguire a notizie anche antecedenti. Si pensi ad atti depositati in giudizio, a comunicazioni a mezzo pec o posta raccomandata (in giurisprudenza, per la posizione del fallito, cfr. Trib. Roma 6.2.2011 e Trib. Venezia 5.2.2013; per i creditori, cfr. Trib. Brescia 20.6.2012).
Per concludere, la pronunzia in commento conferma, da una lato, la “specialità” sia sostanziale sia processuale (nonostante i principi generali di cui agli artt. 24 e 52 L. Fall.) della disciplina sui rapporti di lavoro nell’impresa in crisi; dall’altro, che detta specialità, anche per effetto di una stratificata e disomogenea legislazione, crea – nel Giudice del lavoro come in quello fallimentare – frequenti “disagi” nell’affrontare le numerose questioni interpretative che coinvolgono i diversi rami del diritto da applicare (in tema, da ultimo, per la dottrina, cfr. Marazza-Garofalo, Insolvenza del datore di lavoro e tutele del lavoratore, Torino 2015).
Oltretutto, ulteriori riflessioni pone il nuovo rito per l’impugnativa dei licenziamenti, introdotto dalla Riforma Fornero: rispetto alla precedente consolidata giurisprudenza sulla persistente competenza del Giudice del lavoro a decidere sulla domanda di reintegrazione nel posto di lavoro nei confronti del datore di lavoro dichiarato fallito, oggi deve ritenersi che, nei casi in cui l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento costituisce il presupposto per la richiesta di una concessione della tutela indennitaria, il lavoratore dovrà impugnare il recesso datoriale davanti al Tribunale fallimentare e, magari, anche di fronte al Giudice del lavoro, ove denunzi qualcuno dei vizi dell’atto di recesso da cui può conseguire una tutela reintegratoria (così Sordi, La riforma del lavoro, Milano, 2013, pp. 379-380).

Iolanda Piccinini e Fabrizio Mancini

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