RAPPORTO DI LAVORO A TUTELE CRESCENTI, NULLITA’ DEL LICENZIAMENTO AVENTE NATURA RITORSIVA E REINTEGRAZIONE DEL LAVORATORE – Tribunale di Roma, 24 giugno 2016, est. dott.ssa Leone, C.N.B avv. De Crescenzio e Bernardi, Settembrini S.p.A., M.L. avv. P. Rinaldi

postazione vuota trubunale

Rapporto di lavoro – Contratto di lavoro a tutele crescenti – Sanzioni disciplinari – Licenziamento disciplinare – Consumazione potere disciplinare – Natura ritorsiva del recesso – Motivo illecito determinante – Nullità – Sussistenza – Reintegrazione.

Il licenziamento disciplinare deve essere considerato ritorsivo quando l’ordine temporale tra i provvedimenti e i comportamenti del dipendente è tale che tra la sospensione del servizio e il licenziamento non è stato svolto alcun giorno di lavoro effettivo e, quindi, non può essersi realizzato, neppure in ipotesi, alcun comportamento da parte del dipendente (assente) se non la sola impugnativa delle sanzioni innanzi all’Organo arbitrale. Tale unico circostanza di fatto, in assenza di diverse indicazioni da parte datoriale, comprova che la scelta datoriale che determina il recesso risulta connotata dal chiaro e unico intento ritorsivo, quale risposta all’impugnativa delle precedenti sanzioni il cui potere disciplinare si era peraltro già consumato con la irrogazione delle stesse.

La sentenza in commento suscita particolare interesse sotto un duplice aspetto: da una parte, in quanto risulta essere uno dei primi provvedimenti in tema di licenziamento in relazione ad un rapporto di lavoro instaurato con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti ex decreto legislativo 23/2015; dall’altra, poiché qualifica il recesso quale atto ritorsivo, giacché determinato da motivo illecito determinante, riconducendo lo stesso nell’ambito delle altre ipotesi di nullità diverse dal licenziamento avente natura discriminatoria.
Il punto nodale della vicenda risiede nel fatto che il giudice ha ritenuto il licenziamento nullo per motivo illecito determinante, ai sensi dell’articolo 1418 c.c., comma 2 e degli articoli 1345 e 1324 c.c.. In altre parole, la questione che appare degna di nota, e di rilevante interesse quale primo orientamento sul punto, è l’interpretazione fornita dal Tribunale di Roma con riferimento all’applicazione della reintegrazione del prestatore quando la condotta datoriale accertata sia “riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”, come stabilisce testualmente la formulazione dell’art. 2 del decreto legislativo n. 23/15.
Di seguito, la sintesi dei fatti di causa che hanno determinato il convincimento del magistrato e la determinazione del medesimo ad applicare la tutela reintegratoria.
Il thema decidendum riguarda un licenziamento irrogato ad un dipendente, assunto con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in data 20 aprile 2015, a seguito di una serie di contestazioni e sanzioni disciplinari. Per agevolare la comprensione della vicenda, occorre sin da subito evidenziare che appare determinante, al fine della connotazione ritorsiva del recesso, comprendere quale sia stata la cadenza temporale tra il susseguirsi delle contestazioni disciplinari, l’irrogazione delle sanzioni ad esse riferite e, da ultimo, l’intimazione del licenziamento, in quanto il tutto è avvenuto in un breve periodo di circa 15 giorni.
Le circostanze di causa si sono verificate nel modo seguente:
i) in data 22.09.15, il lavoratore ha ricevuto una contestazione disciplinare relativa ad aggressioni verbali poste in essere nei confronti dei colleghi di lavoro e del datore, nonché per l’abbandono del posto di lavoro prima della fine del turno, con comminazione della sanzione cautelare della sospensione dal servizio per un giorno;
ii) in data 23.09.15, il lavoratore ha ricevuto una seconda contestazione per assenza ingiustificata con contestuale sanzione della sospensione dal servizio per 5 giorni e senza emolumenti per ulteriori 10 giorni;
iii) in data 25.09.15, il lavoratore, a mezzo del proprio avvocato, ha impugnato le suddette contestazioni disciplinari a mezzo PEC;
iv) il lavoratore poi, in data 7.10.16, ha impugnato le sanzioni disciplinari irrogategli innanzi alla competente Direzione Territoriale del Lavoro;
v) in data 8.10.16, il lavoratore, recatosi nuovamente sul posto di lavoro dopo la sospensione cautelare, ha ricevuto la notizia di essere stato licenziato tramite comunicazione per posta elettronica.
Sulla base delle sopra evidenziate circostanze, il Tribunale di Roma ha osservato che “l’ordine temporale tra i provvedimenti e i comportamenti del dipendente è tale che tra la sospensione del servizio e il licenziamento alcun giorno di lavoro effettivo è stato svolto ed alcun comportamento può essersi quindi realizzato, neppure in ipotesi, da parte del dipendente (assente) se non la sola impugnativa delle sanzioni innanzi all’Organo arbitrale”.
A parere del giudice “tale unica circostanza di fatto, in assenza di diverse indicazioni da parte datoriale (che si limita a dichiarare di aver saputo dell’impugnativa delle sanzioni solo dopo il licenziamento), risulta quindi dirimente rispetto al recesso adottato dal datore di lavoro”.
Il magistrato ha affermato ancora sul punto, quale elemento concludente al fine di qualificare l’illecita condotta aziendale, che gli addebiti mossi al lavoratore per i fatti del 22 e 23 settembre erano già stati sanzionati con provvedimenti aventi natura conservativa; tali fatti, quindi, essendo già stato consumato per gli stessi il potere disciplinare, non avrebbero potuto essere considerati al fine della irrogazione della definitiva sanzione espulsiva.
Tale elementi comprovano, inequivocabilmente, che la scelta datoriale che determina il recesso risulta “connotata dal chiaro e unico intento ritorsivo, quale risposta all’impugnativa delle precedenti sanzioni”, già impugnate dal lavoratore in data 25.09.16.
Il giudice capitolino, poi, nel corso del proprio ragionamento decisorio, ha richiamato i precedenti giurisprudenziali in merito alla distinzione tra le fattispecie di licenziamento discriminatorio e quello di tipo ritorsivo. In particolare, il Tribunale sotto tale profilo ha stabilito, citando la sentenza di Cassazione n. 24648/2015, che il divieto di licenziamento discriminatorio è suscettibile di interpretazione estensiva, essendo possibile ricomprendervi anche il recesso per ritorsione, connotato dall’ingiusta e arbitraria reazione ad una condotta lecita del prestatore quale unico motivo del licenziamento. In tale contesto, è necessario che il lavoratore dimostri, anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall’intento ritorsivo.
Al riguardo, il giudice ha ricordato anche un altro orientamento del Supremo Collegio (sentenza n. 10834/15), secondo cui, laddove la condotta datoriale sia connotata univocamente da un intento ritorsivo o discriminatorio, risulta illegittimo il licenziamento disposto in conseguenza di plurime sanzioni, tanto più in assenza di addebiti idonei a giustificare il recesso.
Sulla base di tali principi, il Tribunale ha dichiarato nullo il licenziamento perché motivato univocamente in risposta del legittimo esercizio del lavoratore di impugnare le sanzioni, circostanza questa dimostrata anche dall’ulteriore e dirimente elemento che il datore non aveva contestato altri fatti a giustificazione dell’allontanamento del lavoratore.
Il giudice romano ha anche affrontato la rilevante tematica della ripartizione dell’onere della prova, approfondendo le differenze esistenti tra le due diverse ipotesi del licenziamento discriminatorio e di quello ritorsivo secondo l’esegesi giurisprudenziale. Il Tribunale ha evidenziato in merito che, secondo i giudici di legittimità (in tal senso Cass. 24648/15), l’utilizzo della prova per presunzioni è utilizzabile anche per il recesso ritorsivo, ciò consentendo “un avvicinamento tra le due categorie sopra richiamate almeno sotto il profilo dell’onere probatorio, ferme restando le diversità tra le fattispecie”. Il Tribunale capitolino ha altresì osservato, menzionando sul punto gli orientamenti della Corte di Cassazione, che la prova del fatto discriminatorio può essere raggiunta anche tramite elementi di carattere statistico idonei a fondare l’esistenza di tale atto, spettando al datore convenuto la prova dell’inesistenza della discriminazione; di contro, nel caso di recesso ritorsivo, il giudice deve invece accertare non solo l’inesistenza di una giusta causa ma anche l’esistenza di un motivo illecito determinante.
Nel caso di specie il Tribunale, al fine della qualificazione del licenziamento ritorsivo, ha ritenuto soddisfatto tale gravoso onere della prova in quanto “la scelta datoriale concatenata temporalmente alla impugnazione delle sanzioni precedenti ed in assenza di altre concrete ragioni”, costituisce forte presunzione di illecito civile.
Il giudice poi, per stabilire quali fossero le conseguenze applicabili al caso concreto, ha considerato nullo il recesso riconducendolo indirettamente all’ipotesi prevista dall’articolo 2 del decreto legislativo n. 23/2015 che, infatti, dispone la nullità del licenziamento sia nel caso di natura discriminatoria che in quello in cui esso sia riferibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge.
Il magistrato, conseguentemente, ha disposto la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. La società è stata inoltre condannata, a titolo di risarcimento del danno, al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, calcolata per ciascun mese intercorso tra la data di licenziamento e quella di effettiva reintegrazione.
In conclusione, può affermarsi che, secondo il ragionamento decisorio in annotazione, il motivo illecito determinante, previsto dagli articoli 1345 e 1418, comma 2, del codice civile, è riconducibile, implicitamente, alle altre ipotesi di nullità previste dall’art. 2 del decreto legislativo n. 23/15, le quali consentono la tutela reintegratoria.
In senso contrario, appare opportuno evidenziare che, secondo parte della dottrina, le uniche ipotesi che consentirebbero la reintegrazione nel posto di lavoro sarebbero, in base ad un’interpretazione letterale della citata norma, solo ed esclusivamente quelle tipiche espressamente stabilite dalla legge.
Tuttavia, a parere di chi scrive, una tale impostazione ermeneutica risulta, oltre che paradossale, in contrasto con i principi di diritto comune in tema di nullità; infatti, così ragionando, si vedrebbe concretizzata un’inspiegabile compressione dei diritti del lavoratore sulla base del presupposto, a dir poco singolare, per cui, non potendosi considerare il fatto illecito di natura civilistica quale ipotesi tipica di nullità secondo la formulazione testuale dell’art. 2 del D.lgs. 23/15, la realizzazione di tale fattispecie non consentirebbe la tutela reintegratoria.
Il tentativo di “tipizzare” le condotte nulle appare, ancora una volta, come già è accaduto in passato per altri istituti giuridici, un percorso non solo di difficile realizzazione ma, soprattutto, un pericoloso atteggiamento interpretativo teso a “restringere” eccessivamente le maglie del diritto comune e gli strumenti previsti dal legislatore per l’effettiva tutela dei lavoratori.

Michelangelo Salvagni

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