QUESTIONI IN TEMA DI LICENZIAMENTO SPROPORZIONATO – Tribunale di Roma, ord., 9 aprile 2015, n.r.g 37047, est. Baraschi

martello microfoni

La nozione di giusta causa di recesso, ex art. 2119 c.c., non ha subito modifiche a seguito della legge n. 92 del 2012 la quale non ha in alcun modo inciso sulle clausole generali, quali la giusta causa e il giustificato motivo.
Nel caso di un licenziamento che il giudice accerti essere misura sanzionatoria sproporzionata rispetto alla gravità del fatto contestato e provato nella sua materialità, il giudice può applicare la tutela risarcitoria, c.d. forte, ex art. 18 comma 5, St. Lav., quando ritenga non applicabile il comma 4, in quanto il fatto non risulta punito con una sanzione conservativa invocabile ai fini del CCNL.
(Massime a cura di Rosalinda Montesarchio)

I ricorrenti, ai sensi dell’art. 1 comma 48 della legge n.92 del 2012, con distinti ricorsi, hanno convenuto in giudizio la società cooperativa sociale A.C., impugnando i rispettivi licenziamenti. I suddetti asseriscono la mancanza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo, nonché la violazione dell’art. 42 del CCNL di settore, per manifesta insussistenza del fatto contestato e per difetto di proporzionalità, in quanto il fatto contestato rientrerebbe eventualmente tra le condotte punibili con sanzione conservativa.
Ai ricorrenti, operatori socio sanitari e infermiere professionale, era stato contestato di aver preso parte nei locali del refettorio della struttura, allo svolgimento di un rinfresco organizzato da una paziente prossima ad essere dimessa, fuori dall’orario di lavoro, alle ore 21.30. Il fatto assume rilievo in relazione al contesto, infatti era stato espressamente vietato dal responsabile competente, a tutti i dipendenti, di prendere parte all’evento, soprattutto in virtù, tenuto conto dell’orario,
dell’esigenza di tutelare il riposo degli altri degenti della struttura. Dalle dichiarazioni testimoniali rese, il Tribunale di Roma muovendo dalla considerazione che la Riforma Fornero non ha in alcun modo inciso sulle formule generali come quella della giusta causa, ha ritenuto pienamente provato il fatto materiale contestato ai ricorrenti. Ciò premesso, ritiene il Tribunale, che l’aver disatteso il diniego di autorizzazione, ha certamente rilievo disciplinare in ragione dell’inadempimento commesso; tuttavia afferma che la sanzione espulsiva è sproporzionata rispetto alla gravità dei fatti contestati, e ciò in quanto “si tratta di una condotta occasionale e circoscritta a quella peculiare situazione”. In ossequio a giurisprudenza consolidata, il modus ragionandi seguito è stato teso
all’esame della congruità della sanzione espulsiva, in relazione, non ad una valutazione astratta, ma tenendosi conto di ogni aspetto concreto del fatto, “alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro”. (Cass., Sent., n. 2013, del 13 febbraio 2012; nello stesso senso, anche, Cass., Sent., n. 14586 del 22 giugno 2009). Peraltro, il Giudice ha altresì constatato che il datore di lavoro non ha fornito elementi idonei dai quali potersi desumere l’interruzione, irrimediabile, del vincolo fiduciario con i propri dipendenti, e che quindi avrebbe potuto procedere a sanzionare la condotta inadempiente dei lavoratori anche con una sanzione conservativa, seppur la più incisiva. E’ per tali considerazioni, che il Tribunale di Roma ha ritenuto il licenziamento misura sanzionatoria sproporzionata rispetto
al fatto concretamente addebitato. Tuttavia, con riferimento alla tutela sanzionatoria accordata, a
causa dell’impossibilità da parte del Giudice di poter sussumere il fatto contestato tra gli inadempimenti per i quali l’art. 42 del CCNL di settore prevede l’applicazione di sanzioni conservative, il Tribunale di Roma ha parzialmente accolto il ricorso, statuendo, in virtù della lettura offerta da Cass., Sent. n. 23669 del 6 novembre 2014, l’applicazione della tutela indennitaria c.d. forte, ex. art. 18 comma 5, della L. n. 300 del 1970, così come novellata dalla L. n. 92 del 2012; ritenendo in tal modo, di non dover trovare applicazione la tutela reintegratoria, c.d. attenuata, prevista al comma 4, dell’art.18 della suddetta legge.
Con riferimento al quantum dell’indennità liquidata, il Giudice ha condannato alla corresponsione, di un’indennità risarcitoria pari a 14 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, motivando l’utilizzo dei parametri di riferimento – anzianità di servizio dei ricorrenti (all’incirca un anno e mezzo), dimensioni dell’impresa (che occupa 108 dipendenti), comportamento complessivo delle parti -. A tal proposito, può osservarsi che il giudice, ai sensi dell’art. 18, comma 5, della L. n. 300 del 1970, nel liquidare l’indennità risarcitoria onnicomprensiva, deve rapportarsi a criteri di forfettizzazione, stante il doppio condizionamento del minimo di 12 e del massimo di 24 mensilità, nonché ai principi enunciati dalla norma, e per i quali, su di lui, incombe obbligo di motivazione. Rispetto all’accertamento della gravità della condotta ai fini della giusta causa, occorre mettere in
evidenza, come da sempre, a partire dai probiviri, e poi in ossequio all’art. 2106 c.c., tanto più con
l’approvazione dell’art.1 della L. n. 604 del 1966 – che ha sancito definitivamente l’obbligo di giustificare necessariamente il recesso dai contratti a tempo indeterminato – il giudice è stato chiamato ad accertare e valutare la gravità del fatto, ai sensi dell’art. 2119 c.c.. Ora, vira in senso opposto il d.lgs n. 23 del 4 marzo 2015, che per i licenziamenti afferenti contratti di lavoro stipulati successivamente alla data della sua entrata in vigore, – oltre al totale silenzio circa il riferimento alle ipotesi che comminano sanzioni conservative sulla base dei CCNL – prevede, all’art. 3 comma 2, che il lavoratore sia reintegrato nel posto di lavoro, soltanto, quando in giudizio, sia direttamente

dimostrata, l’insussistenza del fatto materiale contestato, rispetto al quale resta estranea ogni
valutazione circa la sproporzione della sanzione espulsiva. A parte le difficoltà interpretative, suscita perplessità l’esclusione di un giudizio di proporzionalità, certamente motivata dall’esigenza di dare certezza ed evitare soggettivismi decisionali ma, pur tuttavia offrendo una soluzione che sembra in contrasto con un principio fondamentale in materia di responsabilità disciplinare. Il giudice, per l’avvenire, dovrà quindi arrestarsi all’accertamento della esistenza del fatto e della sua addebitabilità al lavoratore, ma non potrà più dare giudizi ulteriori sulla entità effettiva della condotta.

Rosalinda Montesarchio

* Di prossima pubblicazione su “Lavoro a previdenza oggi” (www.lpo.it)

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