PERMESSI STUDIO LAVORATORI A TEMPO DETERMINATO NEL PUBBLICO IMPIEGO: IL TRIBUNALE DI PALERMO SMENTISCE L’ARAN – Tribunale di Palermo, Sezione Lavoro, ord. 8 marzo 2017 n. 12159, est. Campo

martello e libro rosso

Non v’è motivo di escludere che l’art. 15 del C.C.N.L. del Comparto Regioni ed Autonomie Locali, nella parte in cui prevede il diritto ai permessi retribuiti per motivi di studio, non possa essere inteso, in virtù del mero riferimento testuale ai lavoratori a tempo indeterminato, come ostativo al riconoscimento di un medesimo diritto per i lavoratori a tempo determinato, sì che l’esclusione dai permessi di studio consegua, in maniera automatica, al fatto che il contratto preveda un termine di durata, ponendosi altrimenti in evidente contrasto con il principio di non discriminazione come recepito nell’art. 6 del D.lgs. n. 368 del 2001 (massima a cura degli autori).

Contratto di lavoro a tempo determinato – pubblico impiego – permessi retribuiti per motivi di studio – spettanza – principio di non discriminazione – sussistenza

La pronuncia in commento affronta il delicato tema del divieto di discriminazione tra lavoratori a tempo determinato ed indeterminato nel pubblico impiego con particolare attenzione al riconoscimento anche ai lavoratori con rapporto flessibile dei permessi retribuiti per motivi di studio (c.d. 150 ore).

Nel procedimento d’urgenza conclusosi con l’accoglimento del ricorso incardinato dalla lavoratrice ex art. 700 c.p.c., la ricorrente, dopo aver premesso di essere in servizio dal 2004 ad oggi presso il resistente ente pubblico non economico con contratti di lavoro a tempo determinato, deducendo di avere fruito, fino al mese di settembre del 2015, dei permessi studio previsti dall’art. 15 del C.C.N.L. del Comparto Regioni ed Autonomie Locali del 14.09.2000, nonché di quelli disciplinati dall’art. 10 dello Statuto dei Lavoratori, lamentando di essere stata successivamente invitata dal datore di lavoro a recuperare le ore lavorative oggetto dei permessi fruiti e di essersi vista respingere altresì le richieste formulate per la fruizione dei medesimi permessi per gli anni 2016 e 2017, chiedeva la condanna di parte datoriale affinché le venissero concessi gli invocati permessi ovvero che l’Autorità adita adottasse ogni altro provvedimento idoneo ad eliminare il pregiudizio subito.

E’ dunque patente come la fattispecie oggetto dell’ordinanza sia sussumibile, in primo luogo, alla tematica dell’applicazione in concreto del principio di non discriminazione tra lavoratori a tempo determinato ed indeterminato che in ambito comunitario trova il proprio referente normativo nella clausola n. 4 dell’Accordo Quadro allegato alla Direttiva 99/70/CE.

Ed invero, tale clausola come noto prevede che “per quanto riguarda le condizioni di impiego, i lavoratori a tempo determinato non possono essere trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo indeterminati, comparabili per il solo fatto di avere un contratto o rapporto di lavoro a tempo determinato”. Tale principio sancito a livello nazionale, fino al 25 giugno 2015, dall’art. 6 del D.lgs. n. 368 del 6 settembre 2001, che riproponeva sostanzialmente la stessa disciplina contenuta nell’art. 5 della legge n. 230 del 18 aprile 1962, è regolamentato oggi dall’art. 25 del D.lgs. n. 81 del 15 giugno 2015.

Ebbene, l’Autorità di giustizia adita, dopo aver puntualizzato in più parti della pronuncia come il diritto allo studio del lavoratore trova copertura costituzionale negli artt. 2 e 34 Cost. nonché tutela internazionale nell’art. 2 Protocollo addizionale CEDU, e come il principio di non discriminazione possa essere derogato esclusivamente nei casi espressamente previsti dalla normativa di riferimento, ha precisato su tale ultimo aspetto come detta eccezione debba riferirsi ad oggettive incompatibilità, di determinati trattamenti previsti per gli altri lavoratori, con la natura del singolo contratto a termine: la incompatibilità, quindi, deve essere obiettiva e, in particolare, deve riguardare, non già la mera esistenza del termine di durata del contratto, bensì la natura dello specifico rapporto, con la conseguenza che l’ostacolo che impedisce il riconoscimento di un determinato diritto, non solo deve rivelarsi non eliminabile con frazionamenti temporali del trattamento mediante il criterio del pro rata temporis, ma deve, altresì, essere valutato in concreto in relazione alle specifiche modalità di svolgimento del rapporto e alle obiettive esigenze e finalità su cui si fonda la legittima apposizione del termine di durata del contratto. Traendo spunto da tale assunto, il Tribunale di Palermo ritiene che l’art. 15 del C.C.N.L. del Comparto Regioni ed Autonomie Locali, nella parte in cui prevede il diritto ai permessi retribuiti per motivi di studio, non possa essere inteso, in virtù del mero riferimento testuale del precetto contrattuale ai soli lavoratori a tempo indeterminato, come ostativo al riconoscimento di un medesimo diritto anche ai lavoratori a tempo determinato in quanto tale esclusione, in maniera del tutto automatica, si porrebbe in evidente contrasto con il principio di non discriminazione per come recepito sia nell’art. 6 del D.lgs. n. 368 del 2001 sia oggi nell’art. 25 del D.lgs. n. 81 del 2015. L’eventuale esclusione deve, dunque, essere valutata in concreto in relazione alle specifiche modalità di svolgimento del rapporto e alle obiettive esigenze e finalità su cui si fonda l’apposizione del termine al negozio.

Il Giudice adito nel giudizio cautelare si è, quindi, conformato all’indirizzo giurisprudenziale della Suprema Corte di Cassazione. Già in passato, difatti, la Corte nomofilattica aveva avuto modo di osservare come un’eventuale norma della contrattazione collettiva pubblica che riconosca solo ai lavoratori a tempo indeterminato permessi retribuiti per motivi di studio non esclude di per sé che i medesimi permessi debbano essere concessi anche ai dipendenti assunti a tempo determinato, sempre che non via sia un’obiettiva incompatibilità in relazione alla natura del singolo contratto a termine; né l’esclusione del beneficio potrebbe giustificarsi, in ragione della mera apposizione del termine di durata contrattuale, per l’assenza di uno specifico interesse della P.A. alla elevazione culturale dei dipendenti, in quanto la fruizione dei permessi di studio prescinde dalla sussistenza di un tale interesse in capo al datore di lavoro, pubblico o privato, essendo riconducibile a diritti fondamentali della persona, garantiti dalla Costituzione (art. 2 e 34 Cost.) e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo (art. 2 Protocollo addizionale CEDU), e tutelati dalla legge in relazione ai diritti dei lavoratori studenti (l. n. 300 del 1970, art. 10), che devono trovare una concreta ed effettiva attuazione nell’ambito di un equo bilanciamento con gli interessi, pure essi tutelati, alla libera organizzazione dell’impresa e dell’efficienza della pubblica amministrazione (artt. 41 e 97 Cost.) (Cfr. Corte di Cassazione, sentenze nn. 3871 del 17 febbraio 2011 e 17401 del 19 agosto 2011).

Va però evidenziato come, di contro, così statuendo il Tribunale di Palermo ha invece sconfessato apertis verbis il consolidato indirizzo dell’ARAN formatosi sul punto. Infatti, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale della pubblica amministrazione aveva in più occasioni precisato, ponendosi in posizione apertamente speculare rispetto alla Suprema Corte, che in presenza di una disposizione della contrattazione collettiva pubblica che riconosca i permessi retribuiti per motivi di studio ai soli dipendenti assunti a tempo indeterminato i medesimi permessi non debbono essere riconosciuti anche ai dipendenti a tempo determinato in quanto l’art. 6 del D.lgs. 368/01 pur stabilendo il principio di non discriminazione dei trattamenti economici e normativi riconosciuti al personale assunto a termine rispetto a quello a tempo indeterminato, fa salve le eventuali eccezioni, legate allobiettiva incompatibilità dellestensione di taluni istituti tipici del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con le caratteristiche proprie del contratto a termine; tale valutazione di compatibilità è rimessa alle parti negoziali, del resto – sostiene l’ARAN – non può non rilevarsi linconciliabilità di un istituto, che consente di assentarsi dal lavoro per un significativo arco temporale di tempo, con le caratteristiche di un rapporto di lavoro a termine che viene stipulato per assicurare al datore di lavoro la prestazione lavorativa per un ben specifico e limitato periodo temporale (così ARAN: orientamenti applicativi M56; M58; RAL955).

Pertanto, appurata la sussistenza della diatriba ermeneutica, l’ordinanza in commento assume il pregio di aver preso posizione in merito al delineato conflitto interpretativo ed apre interessanti spunti di riflessione circa l’effettiva portata della nozione di “obiettive incompatibilità” che consentono la giustificata deroga al principio di non discriminazione di matrice comunitaria.

Teresa Carroccio e Vincenzo Salvaggio

*Di prossima pubblicazione su “Lavoro e Previdenza Oggi” (www.lpo.it)

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