L’IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO CON RITO ERRATO NON HA EFFETTI SOSTANZIALI MA SOLO PROCESSUALI – Corte di Appello di Milano, Sezione Lavoro, 21 dicembre 2018, n. 1897, Pres. Trogni, Est. Bianchini

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L’impugnazione del licenziamento con un rito errato ha effetti solo processuali e non sostanziali, rendendo ammissibile la (tardiva) riproposizione dell’impugnativa nelle forme del rito correttamente applicabile.

Licenziamento – giusta causa – rito applicabile – inammissibilità – tardività – effetti processuali – effetti sostanziali.

Art. 2119 c.c.- art. 6 l. n. 604/1966 – art. 18 l. n. 300/1970 – art. 3 d.lgs. n. 23/2015 – art. 426 c.p.c. – art. 427 c.p.c.

La Corte di Appello di Milano, con la sentenza citata in epigrafe ha accertato la illegittimità di un licenziamento intimato dalla società C. S.r.l. nei confronti di V.S., un lavoratore assunto nel 2016 ma cui era stata riconosciuta contrattualmente l’applicazione del regime di tutela ex art. 18 legge n. 300/1970.

I Giudici d’Appello hanno statuito che l’impugnazione giudiziale del licenziamento, anche se originariamente instaurata dal lavoratore con un rito errato ha effetti solo sul piano processuale e non produce alcun effetto di natura sostanziale. Così, avendo verificato che il lavoratore aveva  rispettato tutti i termini di legge per l’impugnazione del licenziamento, seppur avvenuta con il rito c.d. “Fornero” anziché con il rito ordinario del lavoro – correttamente applicabile – la Corte ha affermato la ammissibilità del nuovo ricorso proposto oltre termine perché ha valorizzato la tempestiva impugnazione messa in atto ab origine con il rito errato. In altri termini, ha riconosciuto valore di tempestività al ricorso tardivo in quanto frutto di una precedente impugnazione tempestiva ma dichiarata inammissibile perché avvenuta con rito errato.

Nel caso di specie la C. S.r.l. aveva intimato il licenziamento per giusta causa nei confronti di V. S. per aver, durante un periodo di assenza per malattia, messo a rischio la ripresa dell’attività lavorativa trattenendosi fino a tarda notte presso una discoteca e per aver frequentato un esercizio commerciale, oltreché per essere titolare di una impresa individuale e per essersi assentato senza giustificazione dal lavoro per un giorno.

Il lavoratore aveva impugnato tempestivamente il licenziamento, innanzi al Tribunale, nelle forme del rito c.d. “Fornero” in considerazione della applicazione, pattuita contrattualmente, al proprio rapporto di lavoro delle tutele di cui all’art. 18 della legge n. 300/1970. Il Giudice di prime cure aveva respinto il ricorso così proposto, giudicandolo inammissibile per erroneità del rito. Lo stesso lavoratore aveva poi riproposto la medesima domanda di impugnazione del licenziamento, nelle forme del rito ordinario e, con sentenza del Tribunale di Milano in funzione di Giudice del lavoro, veniva accertata la non ricorrenza degli estremi della giusta causa del licenziamento, con dichiarazione di risoluzione del rapporto inter partes e condanna della C. S.r.l. al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre interessi, rivalutazione e spese di lite.

La corte territoriale lombarda, giudicando sul gravame proposto da C. S.r.l., in via preliminare ha disatteso l’eccezione di decadenza dall’impugnazione giudiziale di licenziamento avanzata dalla parte datoriale a fronte della sentenza resa dal Tribunale che aveva dichiarato la inammissibilità del ricorso depositato tempestivamente con le forme del rito c.d. “Fornero”.

Il collegio giudicante, infatti, ha ritenuto che V.S. avesse di fatto rispettato tutti i termini previsti dall’art. 6 l. n. 604/1966 per l’impugnazione del licenziamento in ragione della tempestiva azione giudiziaria promossa contro la risoluzione del rapporto e del fatto che il secondo ricorso contenente una domanda identica alla prima. Tutto ciò anche alla luce dell’accordo intercorso tra C. S.r.l. e le OO.SS. circa l’applicazione al rapporto di lavoro della tutela anteriore al jobs act.

La Corte ha dichiarato che nel caso de quo la sentenza di inammissibilità avesse solo valore processuale, facendo salvi gli effetti sostanziali, chiarendo incidentalmente che il giudice di primo grado avrebbe dovuto più correttamente convertire il rito ed assegnare alle parti un termine per la regolarizzazione degli atti di causa.

I Giudici d’Appello, in tema di mutamento di rito, hanno così stabilito che fosse applicabile anche nel caso di specie la disciplina di legge che disciplina i rapporti fra rito ordinario e rito del lavoro. La Corte ha affermato, infatti, che gli artt. 426 e 427 c.p.c. debbano ritenersi applicabili anche per il mutamento di rito tra quello “ordinario del lavoro” e quello speciale c.d. “Fornero”.

Nel merito, la Corte di Appello ha condiviso le valutazioni rese dal Giudice del primo grado e, dopo aver ribadito la validità del certificato rilasciato dal medico di base quale atto pubblico, valutate le risultanze istruttorie, ha ritenuto la condotta addebitata al lavoratore priva di valenza disciplinare.

La Corte ha statuito che per giustificare l’adozione del provvedimento di risoluzione del rapporto da parte del datore di lavoro sia necessario che i profili fattuali contestati emergano chiaramente dall’addebito disciplinare e che gli stessi siano accertati in concreto. Così, pur considerando che lo svolgimento, in costanza di malattia, di attività diversa da quella lavorativa possa essere valutata quale elemento indiziario dell’insussistenza della malattia stessa ovvero quale intenzione del lavoratore di pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, la Corte non ha ravvisato alcuna fraudolenta simulazione dello stato di malattia né alcun pregiudizio al recupero della salute da parte del lavoratore.

In merito al giudizio di proporzionalità espresso dal tribunale, oggetto di specifico motivo di gravame da parte di C. S.r.l., il collegio ha osservato che, ai fini della sussistenza della giusta causa, occorra accertare in concreto se la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva (in relazione alla qualità e al grado del vincolo fiduciario tra le parti), risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia del datore di lavoro.

Tanto premesso i Giudici d’Appello hanno ritenuto che il permanere di una sola delle condotte addebitate, per quanto integrante una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali, non fosse idonea a comportare una lesione definitiva del rapporto fiduciario.

Da ultimo, la Corte milanese ha respinto il motivo di appello inerente alle conseguenze applicabili al licenziamento ritenuto illegittimo, in relazione allo specifico impegno assunto dalla società con le OO.SS. di applicare ai lavoratori assunti la disciplina in tema di licenziamento previgente al d.lgs. n. 23/2015.

*Dott. Giovanni Fiaccavento

* Di prossima pubblicazione su “Lavoro e previdenza oggi” (www.lpo.it)

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