LICENZIAMENTO PER G.M.O.: IL CONTROLLO GIURISDIZIONALE SUI CRITERI DI SCELTA E SULL’OBBLIGO DI REPÊCHAGE – Corte di Appello di Roma n. 3535 del 2 ottobre 2018, pres. Brancaccio, rel. Pirone

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Nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove la ragione tecnico-produttiva posta a fondamento del recesso implichi non una generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, ma la necessità di sopprimere una specifica posizione lavorativa, al fine di verificare il rispetto dei principi di buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375 c.c., cui deve essere informato ogni comportamento delle parti, non trovano applicazione i criteri di comparazione previsti dalla l. n. 223 del 1991, assumendo esclusivamente rilievo l’effettiva sussistenza di quelle esigenze di carattere tecnico-produttivo che hanno comportato la soppressione della specifica posizione lavorativa, nonché l’impossibilità di reimpiego del lavoratore, con onere della prova a carico del datore di lavoro.

Con la sentenza in commento, la Corte di Appello di Roma torna nuovamente sul tema del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, al centro ormai da tempo di un intenso dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

Nei fatti una lavoratrice di un istituto religioso impugnava ex art. 1, comma 48, l. 92/2012 il licenziamento intimatole per soppressione della posizione lavorativa.

Sia il giudice della fase sommaria sia il giudice dell’opposizione ritenevano sufficientemente provata la sussistenza del giustificato motivo oggettivo, avendo il datore dimostrato l’effettiva esigenza di razionalizzazione dell’organizzazione aziendale ed il nesso di causalità con il recesso.

I giudici avevano altresì ritenuto soddisfatti i principi di buona fede e correttezza nella scelta della lavoratrice da licenziare; del resto, trattandosi di licenziamento individuale, i doveri dell’Istituto si risolvevano esclusivamente nella necessità di dare conto di una scelta ponderata e rispettosa dei principi ex artt. 1175 e 1375 c.c. e non dei criteri compativi previsti per le procedure collettive.

Proposto reclamo, la lavoratrice censurava la sentenza impugnata nella parte in cui era stata ritenuta provata l’autonomia funzionale della sede di Roma, luogo di svolgimento della sua prestazione di lavoro, rispetto alla sede centrale della congregazione; deduceva, al riguardo, che presso la sede romana venivano svolte attività meramente ausiliarie rispetto a quelle svolte presso la sede centrale.

La reclamante lamentava, inoltre, l’inosservanza da parte dell’Istituto dell’obbligo di repêchage presso altre sedi della congregazione anche con adibizione a mansioni diverse, evidenziando la presenza di impiegati amministravo-contabili aventi posizioni lavorative equivalenti e con minore anzianità contributiva, nonché l’assunzione di nuovo personale con mansioni impiegatizie successivamente al licenziamento.

Quanto alla doglianza relativa all’assenza di autonomia della sede di lavoro, la Corte d’Appello evidenzia come l’Istituto avesse documentalmente provato l’indipendenza tecnica e amministrativa della sede romana rispetto al ciclo produttivo assegnato alla stessa; tale sede, al pari delle altre dislocate sul territorio, era dotata di proprio personale, docente e amministrativo, di un proprio direttore e di una specifica autorizzazione allo svolgimento delle proprie attività.

Sotto il profilo del controllo della scelta del lavoratore da licenziare, la Corte d’Appello preliminarmente rileva come, nel caso in esame, la ragione tecnico-produttiva posta a fondamento del licenziamento implicasse non una generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile (vale a dire, la generica soppressione di una “qualsiasi” risorsa al fine di ridurre i costi), ma la necessità di sopprimere una specifica posizione, ovverosia quella della lavoratrice reclamante.

In tali casi, al fine di verificare il rispetto dei principi di buona fede e correttezza ex artt. 1175 e 1375 c.c., cui deve essere informato ogni comportamento delle parti e, quindi, anche il recesso di una di esse, non è possibile applicare, neppure in via analogica, i criteri di comparazione previsti in tema di licenziamento collettivo dall’art. 5, l. n. 223 del 1991, assumendo esclusivamente rilievo l’effettiva sussistenza di quelle esigenze di carattere tecnico-produttivo che hanno comportato la soppressione dell’individuata posizione lavorativa.

Il controllo giurisdizionale deve, dunque, essere volto ad accertare sia il fatto stesso della soppressione della particolare posizione di lavoro determinata da ragioni economiche sia l’impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, con relativo onere della prova gravante sul datore ex art. 5, l. 604/1966.

D’altra parte, il requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”, di cui all’art. 18, comma settimo, Stat. Lav., come modificato dalla legge Fornero, concerne entrambi i suddetti presupposti, non avendo la riforma del 2012 modificato né la nozione di g.m.o. di cui all’art. 3, L. 604/1966, né la regola di riparto dell’onere della prova di cui all’art. 5, L. 604/1966.

Nella specie, la Corte ritiene documentalmente dimostrate le perdite gestionali, protrattesi nel tempo, l’effettiva concentrazione dei processi amministrativo-contabili presso la sede centrale, nonché il nesso di causa con la soppressione della posizione lavorativa della reclamante.

Quanto alla prova dell’impossibilità di reimpiego, tema particolarmente dibattuto anche dalla giurisprudenza più recente, la Corte richiama alcuni fondamentali principi volti ancora una volta a chiarire il contenuto dell’onere  probatorio gravante sul datore.

In primo luogo, la sentenza ribadisce la regola in base alla quale spetta al datore di lavoro sia l’allegazione sia la prova dell’impossibilità di repêchage quale requisito del giustificato motivo di licenziamento, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i suddetti oneri; il lavoratore può quindi limitarsi ad allegare l’esistenza di posizioni lavorative disponibili, non essendo invece richiesta una specifica indicazione di posti liberi in azienda.

Al riguardo, richiamando la recente Cass., 23.5.2018, n. 12794, la Corte chiarisce come una volta accertata l’impossibilità di repêchage da parte del datore, la mancanza di allegazioni del lavoratore circa l’esistenza di una posizione lavorativa disponibile possa valere a corroborare il quadro probatorio.

In secondo luogo, precisa la Corte, l’onere della prova relativo all’impossibilità di ricollocazione del dipendente licenziato – concernendo un fatto negativo – può essere assolto dal datore mediante la dimostrazione di fatti positivi correlati entro limiti di ragionevolezza, anche mediante il ricorso a risultanze di natura presuntiva ed indiziaria, risolvendosi quindi nell’onere di dimostrare di non avere posizioni lavorative scoperte, o di averne in mansioni non equivalenti per il tipo di professionalità richiesta, o ancora di non aver proceduto a nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato ovvero per l’espletamento delle stesse mansioni inerenti la posizione lavorativa soppressa.

Nella pronuncia è infine ribadito che l’onere di provare l’impossibilità di reimpiego deve concernere tutte le sedi dell’attività aziendale, salvo nel caso di accertato preliminare rifiuto di trasferimento da parte del lavoratore.

Richiamati i suddetti principi, la Corte osserva come nella specie anche l’impossibilità di repêchage fosse stata dimostrata: dall’ampia documentazione prodotta in giudizio dal datore, in particolare dall’organigramma aziendale, non erano emersi elementi tali da poter ritenere l’esistenza nell’intero organico aziendale di posti utilmente occupabili dalla lavoratrice, non potendo la reclamante essere adibita a mansioni di insegnamento data l’assenza di titoli ad hoc; l’Istituto aveva altresì provato che il personale indicato dalla lavoratrice come potenzialmente licenziabile era in realtà addetto a mansioni e compiti non equivalenti.

Tali risultanze documentali non erano state contestate da parte della lavoratrice, la quale si era limitata ad allegare genericamente la possibilità di repêchage. Non era inoltre stata provata l’assunzione successiva al licenziamento di altre risorse per lo svolgimento delle medesime mansioni della lavoratrice licenziata.

In conclusione, accertata la sussistenza delle difficoltà economiche richiamate dall’impresa nella comunicazione di recesso, l’avvenuto riassetto organizzativo (in particolare, la concentrazione delle attività amministrativo-contabili presso la sede centrale) e l’incidenza causale sulla posizione della lavoratrice, nonché l’impossibilità di reimpiego, la Corte d’Appello respinge il reclamo ritenendo legittimo il licenziamento intimato dall’Istituto.

Marta Magliulo

** Di prossima pubblicazione su “Lavoro e previdenza oggi” (www.lpo.it)

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