LICENZIAMENTO COLLETTIVO DISCRIMINATORIO E TUTELA DELLA LAVORATRICE – Tribunale di Palermo, ord. 10 maggio 2018, Est. Marino

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La violazione dell’art. 5, 2° comma (secondo periodo), della l. 223 del 1991 – ai sensi del quale l’impresa non può… collocare in mobilità una percentuale di manodopera superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione– comporta la nullità del licenziamento collettivo, perché lesivo di una norma imperativa inderogabile, con conseguente condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro della lavoratrice e al pagamento alla stessa delle retribuzioni maturate dalla data di efficacia del licenziamento a quella della reintegrazione nonché dei contributi previdenziali e assistenziali.

La ricorrente impugnava il licenziamento collettivo, intimatole dalla società convenuta, per violazione dell’art. 5, comma 2°, l. 223 del 1991, nella parte in cui questo dispone che “l’impresa non può.. collocare in mobilità una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione”.

Il Tribunale di Palermo ha ritenuto fondata la censura della ricorrente, risultando per tabulas che il numero di donne lavoratrici coinvolte nella procedura di mobilità (sei) fosse superiore alla percentuale massima di manodopera femminile di cui la norma citata consentiva il licenziamento collettivo (nel caso di specie, quattro). Risultava, inoltre, che la lavoratrice fosse l’unica donna licenziata nel suo profilo professionale, non essendo stati toccati dalla procedura collettiva i suoi due colleghi maschi, e che, pertanto, non avrebbe dovuto essere licenziata se fosse stata rispettata la percentuale massima di donne licenziabili, considerato che la graduatoria dei lavoratori da licenziare avrebbe dovuto essere fatta in relazione ai singoli profili professionali interessati dalla procedura e che negli altri profili professionali oggetto dei licenziamenti collettivi o non vi era nessun uomo che potesse essere licenziato in luogo di una donna o non era presente nessuna donna più anziana (o con maggiore carico di famiglia) della ricorrente.

Secondo il Tribunale di Palermo il caso di specie non configura una ipotesi di violazione dei criteri di scelta ex art. 5, comma 1, l. 223/1991 bensì di violazione di una norma imperativa inderogabile, esplicitazione del principio di non discriminazione presente nella Costituzione e nella normativa dell’Unione Europea. L’art. 5, 2° comma, l. 223 del 1991 statuisce, infatti, un divieto inderogabile di licenziamento a tutela di una categoria più debole e pone una presunzione assoluta di discriminatorietà del licenziamento in danno alle appartenenti alla categoria più debole e svantaggiata (analogamente a quanto accade per il divieto di licenziamento del disabile o per quello della lavoratrice madre).

Così interpretata la norma non è lesiva della direttiva comunitaria in tema di discriminazione (54/2006) perché non impone che siano licenziati lavoratori uomini anziché lavoratrici donne ma si limita a prevedere che le lavoratrici donne possano essere licenziate solo nei limiti della loro percentuale di occupazione nella categoria e profilo professionale interessati dalla mobilità collettiva: la norma non ha, infatti, quale finalità l’incremento della percentuale di manodopera femminile occupata ma solo il mantenimento della stessa.

Il Tribunale di Palermo ha, pertanto, applicato l’art. 18, 1° comma, della l. 300/1970 e ha dichiarato nullo il licenziamento collettivo, poiché intimato in violazione di norma imperativa di legge, e ha condannato la società datrice di lavoro alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e al pagamento alla stessa delle retribuzioni maturate dalla data di efficacia del licenziamento a quella della reintegrazione nonché dei contributi previdenziali e assistenziali.

*Prof.ssa Maria Cristina Cataudella

** Di prossima pubblicazione su “Lavoro e previdenza oggi” (www.lpo.it)

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