LA REINTEGRAZIONE NEL POSTO DI LAVORO AL TEMPO DEL JOBS ACT: LICENZIAMENTO DISCIPLINARE, RIPARTIZIONE DELL’ONERE DELLA PROVA IN CASO DI ASSERITE CONDOTTE RITORSIVE O DISCRIMINATORIE E L’INSUSSISTENZA DEL FATTO MATERIALE – Tribunale di Roma, 4 aprile 2016, est. Marrocco, P.S. c. TILAK S.r.l.

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Rapporto di lavoro – Contratto di lavoro a tutele crescenti – Sanzioni e contestazioni disciplinari – Licenziamento disciplinare – Natura discriminatoria o ritorsiva del recesso – Ripartizione onere della prova – Nullità del licenziamento – Esclusione – Insussistenza del fatto materiale contestato – Sussistenza – Reintegrazione.

Il licenziamento discriminatorio si può ritenere dimostrato se pervenga dagli elementi di causa la sussistenza del c.d. fattore rischio e del dato oggettivo, che dia conto del fatto che il lavoratore, proprio a causa delle sue condizioni e delle sue scelte, sia stato trattato in maniera differente rispetto a quanto sia stato o sarebbe stato trattato un altro soggetto in analoga situazione e ciò a prescindere dalla motivazione addotta e dall’intenzione di chi ha adottato il provvedimento discriminatorio. Il recesso per motivo illecito ex art. 1345 c.c., invece, ricorre ove la condotta datoriale sia stata determinata esclusivamente da un intento contra legem e, quindi, nel caso in cui vi sia stata da parte di quest’ultimo una reazione abnorme rispetto ad una condotta lecita del prestatore.
Esclusa la natura discriminatoria e comunque illecita del licenziamento e quindi gli effetti sanzionatori della nullità del recesso, lo stesso può ritenersi illegittimo ai sensi dell’art. 3, co. 2, del d.lgs. 23/2015, quando sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, con conseguente annullamento del licenziamento e reintegra nel posto di lavoro.

L’ordinanza in annotazione, a quanto consta, è il primo provvedimento emesso dal Tribunale di Roma in materia licenziamento in relazione ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato instaurato dopo l’entrata in vigore del cosiddetto Jobs Act (il rapporto tra le parti ha avuto origine in data 17 marzo 2015). Nel caso di specie, quindi, trovano applicazione le disposizioni del decreto legislativo n. 23 del 2015.
La questione che si espone appare di notevole interesse per le varie tematiche trattate.
La lavoratrice infatti, a fronte di un licenziamento avente natura disciplinare, ha prospettato in giudizio diverse domande al fine di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro. Al vaglio del Tribunale, per il medesimo fatto contestato che ha determinato il recesso, la ricorrente ha richiesto, in prima istanza, la declaratoria della nullità dello stesso perché discriminatorio o ritorsivo per motivo illecito determinante. In via subordinata, l’infondatezza del licenziamento per insussistenza del fatto materiale contestato.
Preliminarmente, occorre evidenziare che l’impostazione difensiva della lavoratrice, a dire il vero, risulta connotata da una tecnica giuridica non sempre adatta e coerente con gli istituti invocati.
Nel caso di specie, infatti, manca un puntuale riferimento a quei cogenti elementi di prova che dovrebbero essere forniti dalla parte per supportare la dimostrazione in giudizio delle complesse fattispecie della condotta discriminatoria o ritorsiva, come verrà meglio evidenziato in seguito.
Tale premessa appare opportuna anche per consentire di comprendere appieno lo sforzo ermeneutico del giudice che, in virtù del principio dispositivo, è tenuto a dare risposta a tutte le domande prospettate in giudizio, al fine di trovare la soluzione più corretta rispetto al caso concreto.
In virtù delle circostanze argomentate in corso di causa, il Tribunale ha dovuto quindi valutare attentamente se i fatti posti alla base dell’allontanamento della prestatrice fossero effettivamente connotati dagli elementi che caratterizzano la condotta discriminatoria o ritorsiva del datore.
In sintesi, la lettera di licenziamento richiamava una serie di contestazioni disciplinari asseritamente poste in essere dalla lavoratrice che, per comodità di lettura e di miglior comprensione della vicenda, di seguito si riassumono:
un comportamento del tutto inadeguato sul luogo di lavoro e una marcata arroganza nei confronti del personale mediante l’utilizzo di un linguaggio volgare e dai toni accesi, contestato con lettera del 27 marzo 2015;
assenze ingiustificate dal 30 maggio al 16 giugno 2015, contestate con lettera del 10 giugno 2015;
mancata osservanza dell’orario di lavoro, contestata con lettera del 22 maggio 2015 e sanzionata con tre ore di multa.
Innanzitutto, va precisato che la società resistente, nonostante fosse stata ritualmente chiamata in giudizio, è rimasta contumace e che il Tribunale di Roma ha trattato la controversia con il rito previsto dall’art. 1, comma 48 ss della l. 92/2012, affermando in merito che “la domanda della lavoratrice ha ad oggetto l’impugnazione del licenziamento e il conseguente diritto della lavoratrice alla tutela ex art. 18, l. 300/70, sicché la relativa azione è sussumibile alla fattispecie di cui al comma 47 del citato art. 1, che tanto richiede”.
Passando all’analisi del caso di specie, il giudice ha preliminarmente valutato, sulla base del petitum prospettato e delle deduzioni attoree, se si fossero concretamente verificate le invocate ipotesi del licenziamento discriminatorio o ritorsivo, per poter eventualmente riconoscere, in via principale, la cosiddetta tutela reintegratoria forte prevista per il licenziamento nullo, come stabilita dall’art. 2 del d.lgs. 23/2015, nei casi di recesso discriminatorio o negli altri casi di nullità previsti espressamente per legge.
Sul punto, il magistrato ha sottolineato che se l’intento del legislatore, come manifestato dal significato delle parole utilizzate nella formulazione dell’art. 2 del d.lgs. 23/2015, è stato quello di tenere distinte le due fattispecie, il giudice necessariamente deve tener conto delle differenze esistenti tra le stesse. Ed infatti, osserva correttamente il Tribunale che, sebbene “entrambe le ipotesi di licenziamento producano i medesimi effetti sanzionatori”, le stesse tuttavia non sono “sovrapponibili”, in quanto i presupposti per la loro realizzazione sono diversi.
In merito, il giudice ha affrontato il tema della differente ripartizione dell’onere della prova che caratterizza tali istituti. Per quanto riguarda il licenziamento discriminatorio, è stato osservato che lo stesso si può ritenere dimostrato se emerga dagli elementi di causa la “sussistenza del c.d. fattore rischio e del dato oggettivo, che dia conto del fatto che il lavoratore, proprio a causa delle sue condizioni e delle sue scelte, sia stato trattato in maniera differente rispetto a quanto sia stato o sarebbe stato trattato un altro soggetto in analoga situazione e ciò a prescindere dalla motivazione addotta e dall’intenzione di chi ha adottato il provvedimento discriminatorio”.
In questo caso, secondo quanto si legge nell’ordinanza de qua, il datore di lavoro, nell’ambito della ripartizione dell’onus probandi, dovrà dimostrare: da una parte, ex art. 5, l. 604/66, l’esistenza della motivazione addotta a giustificazione del recesso, la cui mancanza peserebbe in maniera rilevante quale indizio della condotta illegittima; dall’altra, in base a quanto previsto dal punto 4 dell’art. 28 del d.lgs. 150/11, l’assenza della discriminazione. Di contro, il prestatore, sempre ex art. 28, d.lgs. 150/11, dovrà provare il “c.d. fattore rischio e allegare i fatti significativi della disparità di trattamento”.
Il Tribunale capitolino ha poi esaminato anche il tema del recesso ritorsivo per motivo illecito determinante, evidenziando che in tale evenienza il lavoratore, in base all’art. 1345 c.c., deve provare che l’atteggiamento datoriale sia stato determinato esclusivamente da un intento contra legem e, quindi, che vi sia stata da parte di quest’ultimo una reazione abnorme rispetto ad una condotta lecita. Il prestatore, invece, dovrà dimostrare non solo l’infondatezza dei motivi dell’allontanamento, ma anche l’illiceità e la consequenzialità della reazione del datore alle proprie condotte, potendo utilizzare in tal senso le presunzioni ex art. 2697 c.c..
Alla luce di tale ricostruzione, il magistrato ha ritenuto insussistenti i due profili di nullità.
L’ipotesi discriminatoria è stata considerata non dimostrata, in quanto la ricorrente non ha allegato in giudizio “i fatti sintomatici della situazione di svantaggio in cui si sarebbe trovata rispetto agli altri”; ed infatti, non è stato indicato in atti neppure un caso dal quale si potesse riscontrare un trattamento datoriale discriminatorio. Il giudice, altresì, ha reputato insussistente il motivo illecito, come preteso in ricorso, poiché l’istante non ha fornito la prova “che il licenziamento sia avvenuto per l’unico e determinate motivo di ritorsione rispetto a legittime istanze”, mancando la conferma della presunta ostilità del datore all’esercizio dei diritti previsti a tutela della lavoratrice madre. La prova testimoniale offerta sul punto, infatti, è stata valutata inammissibile, poiché generica e valutativa.
Il giudice, invece, dopo aver escluso la natura discriminatoria e, comunque, ritorsiva del licenziamento, ne ha constatato l’illegittimità, per insussistenza del fatto materiale contestato, in base agli stessi elementi documentali forniti dalla parte ricorrente. Ciò in considerazione delle seguenti circostanze:
le assenze ingiustificate dal 30 maggio al 16 giugno 2015, erano state contestate con lettera del 10 giugno 2015; il fatto, al momento della contestazione del 10 giugno, non si era del tutto verificato e quindi la lavoratrice non poteva essere assente in modo ingiustificato sino al 16 giugno ma, semmai, solo fino al 10 giugno;
sia il foglio presenze che la busta paga concernenti il mese di giugno, prodotti in giudizio dalla ricorrente, hanno dimostrato che la medesima ha esattamente adempiuto l’obbligazione lavorativa anche nel mese di giugno;
quanto alle altre condotte sanzionate nella lettera di licenziamento, stante la contumacia del datore di lavoro, sul quale gravava il relativo onere, non è stata fornita in giudizio la prova della loro attribuibilità alla lavoratrice;
infine, sulla mancata osservanza dell’orario di lavoro, contestata con lettera del 22.05.15, visto che per tale addebito il datore aveva già esercitato il potere disciplinare con l’irrogazione di una multa di tre ore, tale condotta non poteva essere di nuovo sanzionata, essendosi già consumato il potere disciplinare.
Conseguentemente, il Tribunale di Roma, stante l’insussistenza dei motivi posti a giustificazione del recesso, accertata in giudizio sia attraverso la documentazione prodotta sia in virtù del mancato assolvimento dell’onere probatorio incombente sul datore di lavoro, ha applicato l’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015, che disciplina l’ipotesi del “…licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore…”.
In base a tale norma, il magistrato capitolino ha annullato il licenziamento, ha disposto la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro, condannando altresì il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello di effettiva reintegrazione e, comunque, non superiore a dodici mensilità.
In conclusione, alla luce di quanto statuito dal provvedimento in analisi, si può affermare che il percorso per ottenere in giudizio la nullità del licenziamento, secondo la nuova formulazione dell’art. 2 del d.lgs. 23/2015, risulta veramente “tortuoso” e difficoltoso nel momento in cui la parte che ne invoca gli effetti sanzionatori, non supporti adeguatamente le proprie richieste mediante puntuali deduzioni e produzioni documentali.
E’ comprensibile che al tempo del Jobs Act, le cui disposizioni limitano fortemente la tutela reintegratoria, la tecnica giudiziale delle parti che agiscono in giudizio tenti di far rientrare dalla “finestra” ciò che, inevitabilmente, il legislatore ha invece fatto uscire dalla “porta principale”.
L’ordinanza in commento, pertanto, ha il pregio di offrirci, all’indomani della nuova legge n. 23/15, da una parte, una prima panoramica sulle differenze esistenti tra il recesso avente natura discriminatoria e quello di tipo ritorsivo, quando sia formalmente irrogato un licenziamento disciplinare e, dall’altra, una prima interpretazione sul tipo di sanzione applicabile a seconda della tutela richiesta.
Le due fattispecie sin qui esaminate, che spesso vengono utilizzate dalle parti in maniera indifferenziata o promiscua al fine di ottenere la declaratoria della nullità del licenziamento, invece, come giustamente osservato dal Tribunale di Roma, sono ipotesi diverse e non sovrapponibili tra loro e che, in particolare, richiedono una diversa ripartizione dell’onere della prova ai fini della dimostrazione della condotta illecita del datore di lavoro.

Michelangelo Salvagni

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