IL “GIUSTO PROCESSO” DEL LAVORO TRA RAGIONEVOLE DURATA, DECADENZE E PRECLUSIONI – Tribunale di Velletri 28 maggio 2015, n. 960

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Nonostante, ai sensi dell’art. 421 c.p.c. sia consentito al giudice di utilizzare i propri poteri d’ufficio per raccogliere nuovo materiale probatorio, il regime di decadenze e preclusioni che caratterizza il rito del lavoro ostacola l’eccessiva durata del processo ed impedisce l’escussione di nuovi mezzi istruttori, oltre i limiti previsti dalla legge. 

Processo – decadenze – preclusioni – impugnazione – licenziamento

art. 414, 416 e 421 c.p.c. – art. 5 e 8 l. 604/1966

A conferma del regime di decadenze e preclusioni che caratterizza il rito del lavoro, ai sensi dell’art. 416 c.p.c., il Tribunale di Velletri, con sentenza n. 960/2015, accoglie l’impugnativa di licenziamento della ricorrente, la quale, con ricorso depositato in data 22 settembre 2014 conviene il notaio, suo datore di lavoro, impugnando il licenziamento disciplinare per giusta causa intimatole in data 6 marzo 2014 e chiedendo la condanna del datore di lavoro stesso alla tutela obbligatoria prevista dall’art. 8 della legge n. 604/1966.

A dire del Tribunale, infatti, per pacifica e consolidata giurisprudenza di legittimità, la fondatezza dell’impugnativa di licenziamento va affrontata esclusivamente in relazione al contenuto della domanda proposta in ricorso, non essendo consentita l’introduzione di una nuova questione nel corso del giudizio di primo grado, né la possibilità di introdurre domande nuove, consistenti in altri profili di doglianza avverso il provvedimento datoriale espulsivo, considerato il regime di preclusioni che caratterizza il procedimento.

Nel caso di specie, motiva il Tribunale, la parte resistente non ha assolto l’onere imposto dall’art. 5 della legge n. 604/1966, di dimostrare la sussistenza delle condotte imputate alla lavoratrice, ritenute idonee a giustificare il recesso dal rapporto di lavoro: il datore di lavoro, infatti, non ha prodotto la documentazione attestante l’effettività degli ammanchi e la loro riferibilità alle operazioni poste in essere in modo occulto dalla ricorrente (la lavoratrice, a dire del datore, si sarebbe appropriata di 360.889,95 Euro in costanza di rapporto, sfruttando il legame fiduciario che si era instaurato con il datore).

Inoltre, sostiene il Tribunale, la documentazione oggetto della perizia di parte resistente è da ritenersi priva di valore probatorio in quanto basata sulla documentazione che sarebbe stato necessario acquisire in giudizio e di cui, invece, è stata omessa la produzione; la parte resistente ha preteso di aggirare la decadenza istruttoria maturata nei suoi confronti, provando a sostenere che la perizia, resa nel parallelo procedimento penale dal consulente nominato dal p.m., sia stata resa successivamente all’udienza di comparizione.

In realtà, osserva il Tribunale, la documentazione allegata alla perizia era nella disponibilità della parte resistente ma quest’ultima ha omesso di produrla in giudizio, con conseguente decadenza.

In conclusione, il Tribunale accoglie l’impugnativa di licenziamento in quanto ritiene completamente assente la prova offerta dal datore di lavoro circa la sussistenza della giusta causa di recesso e condanna, alternativamente, il datore, a riassumere la ricorrente entro 3 giorni dalla pronuncia in questione, ovvero a corrisponderle, a titolo risarcitorio, 10 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita al momento del recesso dal rapporto di lavoro.

Marzia Federica Cannito

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