CONVERSIONE DEL RAPPORTO A TERMINE, RIAMMISIONE IN SERVIZIO E IUS VARIANDI – Corte di Appello di Roma, 8 giugno 2016, n. 2550

martello e libro rosso

La sentenza del Tribunale di Roma ritorna sul problema della possibilità per il datore di lavoro di assegnare il lavoratore ad altra dipendenza aziendale in sede di riammissione in servizio a seguito di conversione del rapporto per declaratoria di nullità della clausola di termine apposta al contratto.
Il caso è quello della dipendente di una Società telefonica, la quale, assunta a termine, dopo aver ottenuto il riconoscimento del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in concomitanza con la riammissione al lavoro veniva assegnata ad una sede diversa da quella in cui lavorava alla cessazione del rapporto.
Impugnata la detta determinazione innanzi il Tribunale di Roma, Il giudice di primo grado annullava l’assegnazione della ricorrente alla diversa sede in quanto “… l’ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio, a seguito dell’accertamento della nullità di un termine al contratto di lavoro, implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie …”.
Avverso la sentenza la società soccombente interponeva gravame sul presupposto che alla riammissione in servizio non poteva farsi applicazione analogica della disciplina in tema di reintegrazione conseguente a licenziamento.
La Corte d’appello, ritenendo di non poter condividere tale prospettazione, ha confermato la decisione assunta dal Tribunale.
Il Giudice di secondo grado, nel definire la pendenza, ha rilevato che “… lo spostamento di un lavoratore da una sede all’altra, della medesima società, va inteso nei termini di un vero e proprio trasferimento, anche quando avvenga contestualmente alla riammissione in servizio di questi a seguito di un ordine giuridico conseguente alla declaratoria di nullità del termine apposto al contratti di lavoro… Ne consegue che il trasferimento, affinché possa dirsi legittimamente operato, dovrà essere supportato… dalla sussistenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive… ”.
La decisione è conforme al prevalente indirizzo giurisprudenziale, secondo cui “L’ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio a seguito di accertamento della nullità dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo e nelle mansioni originarie, atteso che il rapporto contrattuale si intende come mai cessato e quindi la continuità dello stesso implica che la prestazione deve persistere nella medesima sede; resta salva la facoltà del datore di lavoro di disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, ma in tal caso devono sussistere le ragioni tecniche, organizzative e produttive richieste dall’art. 2103 c.c.” (Cass. 10.6.2014, n. 13060, Riv. giur. lav., 2014, II, 608 (m), n. SALVAGNI; conf., ex multis, Cass. 16.5.2013, n. 11927, Giur. it., 2014, 926, n. SAMBATI).
Altra giurisprudenza ha invece seguito una via diversa, giungendo però al medesimo risultato; le corti di merito in taluni casi, facendo richiamo dei principi di correttezza e buona fede, hanno posto l’attenzione sull’esigenza di un controllo giudiziale diretto ad accertare se il mancato ripristino del rapporto nella sede originaria abbia finalità elusive del giudicato ( T. Roma 20.1.2011, Lavoro giur., 2012, 797, n. PIOVESANA).
Anche quando è stata ritenuta possibile la riammissione del lavoratore in una sede diversa da quella in cui aveva prestato attività, ugualmente la giurisprudenza ha qualificato tale potere come esercizio dello ius variandi soggetto alle regole poste dall’art. 2103 c.c. per il trasferimento.
Comunque si voglia analizzare la fattispecie, la soluzione cui si perviene è che la assegnazione del lavoratore ad una sede di lavoro diversa, anche quando venga disposta contestualmente alla riammissione, costituisce l’esplicazione del potere unilaterale del datore di lavoro di stabilire le modalità dell’adempimento, per cui tale atto non può essere qualificato altrimenti se non come trasferimento, non avendo una sua autonomia concettuale e giuridica fuori da tale inquadramento categoriale.
Dunque, correttamente la Corte d’appello, nel recensire la fattispecie, ha valorizzato gli effetti che la nullità della clausola appositiva del termine produce sull’intero contratto, ritenendo che il rapporto, in virtù della invalidazione della detta clausola per vizio di nullità, prosegue tra le parti senza soluzione di continuità in quanto la sua cessazione per scadenza del termine è da considerarsi tamquam non esset.
Infatti, è proprio alla luce dell’art. 1419, c. 2, c.c. che la decisione giudiziale trova giustificazione, in quanto, la sostituzione di diritto della clausola nulla nei modi di cui all’art. 1339 c.c. determina la continuità del rapporto; sicché il datore di lavoro è tenuto a darvi esecuzione con il rispetto dei limiti imposti all’esercizio del potere conformativo della prestazione lavorativa.
L’inquadramento della ipotesi di specie nell’art. 2103 c.c. impone di verificare la validità della soluzione anche dopo la novella apportata alla norma dal d.lgs. n. 81/2015.
Poiché l’art. 2013 c.c. nella parte in cui disciplina il trasferimento non ha subito modifiche, la persistente attualità dei principi sopra esposti non è in contestazione.

Antonio Federici

*Di prossima pubblicazione su “Lavoro e previdenza oggi” (www.lpo.it)

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