UNA ORIGINALE INTERPRETAZIONE “ESTENSIVA” A COPERTURA DI UN SUPPOSTO VUOTO NORMATIVO: L’ART. 18 COMMA 6 COME SANZIONE RESIDUALE DI CHIUSURA – Tribunale di Cassino, ord., 22 Maggio 2015, n. 3554, est. Savignano

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Nell’ipotesi in cui il licenziamento di un’invalida civile sia stato disposto senza il rispetto della quota di riserva, in violazione dell’art. 11, L. n. 68/1999, non per altro verso ingiustificato o nullo, non potendosi fare ricorso alle tutele previste per le ipotesi di cui ai commi 4, 5 e 7 dell’art. 18 e in difetto di una espressa previsione di tale fattispecie e quindi di una tutela specifica ad essa collegabile, appare possibile riconoscere alla lavoratrice solo la tutela minima (e residuale) prevista dall’art. 18 ovvero quella di cui al comma 6, c.d. tutela risarcitoria attenuata.

Licenziamento – disabilità – quota di riserva – convenzioni – violazione – annullabilità – sanzioni previste – residualità – diritto comune
Art. 18 comma 6, l. 300-1970 – art. 10, commi 3 e 4, e art. 11, l. 68-1999
Il Tribunale di Cassino propone una interpretazione originale della nuova disciplina sanzionatoria ex art. 18 s.l.. Il principio di diritto esposto esaurisce già il contenuto innovativo del provvedimento.
Una lavoratrice invalida civile, assunta con contratto a tempo indeterminato mediante collocamento mirato sulla base di una convenzione ex art. 11 l. 68/1999, veniva licenziata per soppressione dell’U.R.P. (ufficio relazioni con il pubblico) al quale era addetta, nel contesto di un più generale riassetto organizzativo dell’azienda, «finalizzato ad una più economica gestione resasi necessaria in conseguenza dei tagli dei posti letto imposti dai provvedimenti della Regione Lazio in materia di sanità privata».
sotto il profilo della sussistenza del giustificato motivo di licenziamento, il Tribunale di Cassino ha dato credito alla resistente. Con coerenza, essendo il licenziamento giustificato sotto il profilo oggettivo, ha respinto le domande incentrate sulla nullità dell’atto di recesso in quanto ritorsivo ex art. 1345 c.c.. Non sono perciò questi i profili di interesse della decisione.
Il giudice ha invece preso la sua decisione basandosi sulla normativa del collocamento mirato violata dalla società. Ai sensi dell’art. 3 L. 68/1999, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad avere alle loro dipendenze lavoratori disabili o assimilati, appartenenti alle categorie di cui all’art. 1 della legge citata, in una misura che varia a seconda del numero di dipendenti occupati. Il licenziamento per riduzione di personale o per giustificato motivo oggettivo – esercitato nei confronti di lavoratore occupato obbligatoriamente – che porta il numero dei disabili impegnati sotto la quota di riserva è annullabile per espressa previsione della norma.
La resistente, come si legge nel provvedimento, si era limitata a produrre «una convenzione nella quale si programmava un determinato numero di assunzioni, scaglionate nel tempo, assumendosi come base di calcolo (per il rispetto della quota del 7%) n. 797 unità (sicché il personale da assumere sarebbe stato pari a 56 unità), senza dare prova del rispetto delle assunzioni progressivamente programmate e dunque del numero di dipendenti disabili che effettivamente aveva al momento del licenziamento della ricorrente». In tal modo aveva impedito un’effettiva verifica in ordine al rispetto della quota di riserva prevista dall’art. 3 citato. Il licenziamento appariva pertanto viziato per violazione della quota di riserva.
Nell’atto di individuare la tutela in concreto accordabile alla lavoratrice ai sensi dell’art. 18 s.l. il giudice sottolinea che quella disposizione non fa riferimento alcuno all’ipotesi di cui all’art. 10, comma 4, L. 68/1999, né ad ipotesi di “annullabilità” del licenziamento in qualche modo assimilabili a quella presa in esame nella norma da ultimo richiamata. Se ne dovrebbe dedurre – un arresto davvero originale – che, «in difetto […] di una espressa previsione di tale fattispecie e quindi di una tutela specifica ad essa collegabile, appare possibile riconoscere alla lavoratrice solo la tutela minima (e quindi residuale) prevista dall’art. 18 ovvero quella di cui al comma 6 (cd. tutela risarcitoria attenuata, implicante una “indennità risarcitoria omnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità”)».
Se da una parte è vero che le uniche norme richiamate dall’art. 18 comma 7 primo periodo (e oggi anche dall’art. 2 comma 4 d.lgs. 23/2015) sono l’art. 10 comma 3 e l’art. 4 comma 4, il giudice ha trascurato che la norma è aperta ad accogliere anche altre fattispecie a tutela del disabile non espressamente richiamate.
Il comma 7 dell’art. 18 s.l. prevede che «il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68». In modo analogo, il comma 4 dell’art. 2 del d.lgs. 23/2015, stabilisce che la reintegrazione (stavolta piena) «trova applicazione anche nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68». Quell’«anche» (raddoppiato nel d.lgs. 23) avrebbe consentito di far rientrare nella previsione “anche” la violazione dell’art. 10 comma 4.
Pur volendo sottolineare la differenza tra le fattispecie (l’art. 10 comma 3 della l. 68 del 1999 è norma che tutela il posto di lavoro del disabile, esprimendo l’esigenza di un bilanciamento paritario tra produzione e lavoro; l’art. 10 comma 4 pone un divieto di scendere sotto la quota di riserva a garanzia del buon funzionamento del collocamento mirato, esprimendo pertanto la prevalenza delle esigenze solidaristiche ad esso sottese) e pur inferendo da ciò l’impossibilità di includere nello spazio logico aperto dall’”anche” il licenziamento annullabile ex art. 10 comma 4, la norma in esame prevede già il vizio-conseguenza riconducibile a quelle ipotesi: l’annullabilità. Pertanto non è possibile rinvenire alcun vuoto previsionale e il giudice avrebbe dovuto quantomeno rivolgersi al diritto comune, con effetti pienamente ripristinatori del rapporto.
L’attenzione dell’interprete, in casi come quello prospettato, non potrebbe invece mai realisticamente rivolgersi al comma 6 dell’art. 18, norma nient’affatto residuale, bensì espressamente diretta a sanzionare il datore nell’ipotesi di licenziamenti in «violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604». Non vi rientra di certo il caso del licenziamento intimato in violazione della quota riservata ai lavoratori invalidi.

Fabrizio Ferraro

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