UN ALTRO BUCO NELL’ART. 18 RIFORMATO: QUALE TUTELA PER IL LAVORATORE IN PROVA? – Tribunale di Torino, 16 settembre 2016

martello prim piano

La sentenza in esame riguarda un licenziamento disposto a carico di un lavoratore in prova nel regime della legge Fornero.
Il caso è quello di un addetto alla sicurezza (servizio antitaccheggio) il cui rapporto sarebbe stato regolarizzato quando era già in corso, con inserimento nel contratto di lavoro di una clausola di prova; il lavoratore era poi licenziato al termine del periodo di prova a causa del suo mancato superamento.
Conseguentemente impugnava il recesso per mancanza della causale in conseguenza della nullità della pattuizione sulla prova.
Il Tribunale di Torino, accertato che la clausola di prova era stata stipulata dalle parti a rapporto già in corso, annullava il licenziamento e disponeva la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro ritenendo che la nullità della clausola appositiva del periodo di prova comportava l’applicazione del 4° comma dell’art. 18 l. n. 300/1970 perché si configurava un’ipotesi di inesistenza del motivo addotto.
In particolare il giudicante riconduceva il recesso ad nutum per mancato superamento della prova al giustificato motivo soggettivo e ne postulava la illegittimità perché la nullità della clausola equivaleva alla insussistenza del fatto.
Al di là della specificità dell’istituto considerato, cioè il lavoro in prova e, in particolare, il recesso nel rapporto di lavoro in fase di prova, la sentenza in esame si segnala innanzitutto per l’operazione qualificatoria posta in essere.
Il giudice, infatti, ha ritenuto che il recesso ad nutum nel lavoro in prova sia ontologicamente da ricondurre a fatti attinenti la sfera soggettiva del lavoratore, dunque alla causale del giustificato motivo soggettivo.
Ne ha poi inferito che la nullità della clausola di prova rende il licenziamento privo di giustificatezza per insussistenza del fatto posto alla base della disposizione di recesso.
Fin qui la sentenza è sicuramente interessante perché, anche se si pone nel solco di un indirizzo già emerso in giurisprudenza, ne costituisce fattore di sviluppo e occasione di adattamento al nuovo art. 18 Statuto lav. (sia nella versione emendata dalla l. n. 92/2012, sia sostanzialmente in quella esitata dal d.lgs. n. 23/2015).
Ma il punto che offre maggiori spunti di riflessione sembra essere la emersione nell’art. 18 di un vuoto normativo, non essendo rinvenibile nel suo complessivo ed articolato assetto nessuna disposizione che posa ritenersi regolante espressamente la fattispecie presa in considerazione.
Il legislatore, infatti, sia nella riforma Fornero che nel jobs act, ha posto una normativa che, per quanto possa aspirare alla omnicomprensività, alla prova dei fatti lascia fuori diverse fattispecie non facilmente catalogabili all’interno delle categorie regolate (licenziamento nullo, illegittimo ed inefficace).
Lo sforzo interpretativo del Tribunale di Torino è lodevole, ma appare a chi scrive più una operazione di adattamento che di inquadramento.
Infatti, mancando una corrispondenza tra fattispecie concreta e quelle regolate dal legislatore, ha colmato un vuoto normativo riportando il caso all’interno della ipotesi ritenuta più vicina, ossia quella dell’annullamento del licenziamento per giustificato motivo soggettivo per insussistenza del fatto.
Qui non si vuole discutere della esattezza o meno della soluzione accolta, quanto piuttosto della ennesima situazione in cui, nel novellato testo del’art. 18 l. n. 300/1970, il Giudice avverte la necessita di ricercare nella norma una regola di carattere generale applicabile a tutte le ipotesi in cui manchi una previsione normativa espressa.
Si tratta dei casi non catalogabili (in aggiunta a quello in esame è stato già affrontato quello del licenziamento del disabile che determina il venir meno della aliquota di avviamento obbligatorio: Trib. Roma 9.12.2015, in CSDN; Trib. Cassino 22.5.2015, in RFI 2015, voce Rapporto, n. 1118), per i quali manca una disposizione regolatrice e la giurisprudenza ha evidenziato la necessità di ricavarla attraverso una interpretazione estensiva dell’art. 18.
Nei fatti, a giudizio di scrive, l’art. 18 Statuto lav. manca di una capacità di adattamento, nel senso che la sua formulazione non consente di individuare una regola generale ad applicazione residuale.
Ne è prova la questione del licenziamento comportante il mancato rispetto delle aliquote d’obbligo, fattispecie in relazione alla quale, alla espressa previsione da parte dell’art. 10 l. n. 68/1999 della annullabilità del licenziamento, la giurisprudenza ha individuato variamente la sanzione applicabile, rinvenendola una volta nel comma 6 e in un’altra nel comma 1 dell’art. 18, sul presupposto conclamato o implicito di una applicazione generale del meccanismo di tutela contenuto nelle due disposizioni oltre la fattispecie regolata.
In verità a chi commenta appare una situazione diversa: poiché l’art. 18 non copre la varietà della casistica delle causali di licenziamento, fuori dai casi regolati da esso la disciplina deve essere mutuata dal diritto comune, in particolare dalla disciplina generale sui contratti, particolarmente in quella della nullità o della risoluzione.
In un sistema a tutele variabili, come è diventato l’art. 18, nel concorso escludente di diverse tecniche sanzionatorie appare impossibile individuare un minimo comune denominatore, salvo valorizzare come regola generale il comma 1, che rappresenta lo snodo tra la nullità prevista dalla normativa speciale e quella di diritto comune.
Sicché, se proprio si vuole individuare nell’art. 18 un regola generale di tutela, questa non può che essere la reintegrazione ed il risarcimento accedenti alla nullità del licenziamento, rimanendo una norma di sanzione il cui precetto è dato per rinvio all’art. 1418 ss. c.c..

Antonio Federici

*Di prossima pubblicazione su “Lavoro e previdenza oggi” (www.lpo.it)

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