RIFORMA PENSIONISTICA FORNERO E PROSECUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO: ANCORA SULLE FORME DEL CONSENSO DATORIALE ALLA PROSECUZIONE DELL’ATTIVITA’ LAVORATIVA SINO AL SETTANTESIMO ANNO DI ETA’ – Tribunale di Napoli, Sezione Lavoro, 7 ottobre 2015, n. 31186, est. Brizzi

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Riforma pensionistica c.d. “Fornero” e diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro sino al settantesimo anno di età: il Tribunale di Napoli si pronuncia a propria volta, dopo la sentenza n. 8437 del 2015 resa dal Tribunale di Roma, in merito alle possibili forme che può assumere l’accordo per la prosecuzione del rapporto di lavoro, e quindi il consenso espresso del datore di lavoro, nell’ipotesi prevista dall’art. 24, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011, convertito con modificazioni in legge n. 214 del 2011.

Licenziamento – Età pensionabile – Prosecuzione del rapporto – Applicabilità art. 24, comma 4, d.l. n. 201/2011 – Diritto potestativo – Infondatezza – Accordo tra dipendente e datore di lavoro – Consenso tacito – Infondatezza
art. 24, comma 4, d.lgs. n. 201/2011 – art. 18, comma 1, l. n. 300/1970
Il Tribunale di Napoli, con l’ordinanza n. 31186 del 7 ottobre 2015, si è pronunciato a propria volta e successivamente al Tribunale di Roma (cfr. sentenza n. 8437 del 6 ottobre 2015, in questa Rivista), sulle possibili forme che può assumere l’accordo tra il datore di lavoro ed il dipendente per la prosecuzione dell’attività lavorativa sino al settantesimo anno di età ex art. 24, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011, convertito con modificazioni in legge n. 214 del 2011. Pronuncia, questa, che, parimenti a quella emessa dal Tribunale romano, è stata resa a solo un mese di distanza dal deposito della sentenza n. 17589 del 2015 delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che sembrava aver dettato un punto fermo sulla vicenda.
In particolare, le Sezioni Unite del Supremo Collegio, con la sopra citata sentenza, hanno enunciato il seguente principio di diritto: “la disposizione dell’art. 24, c. 4, dello stesso d.l. 6.12.11 n. 201, conv. dalla l. 22.12.11 n. 214, non attribuisce al lavoratore il diritto potestativo di proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno di età, in quanto la norma non crea alcun automatismo ma solo prefigura la formulazione di condizioni previdenziali che costituiscano incentivo alla prosecuzione dello stesso rapporto per un lasso di tempo che può estendersi fino a settanta anni”.
Sennonché, poco tempo dopo l’enunciazione del suesposto principio, il Tribunale di Roma, con la citata sentenza n. 8437 del 2015, ha avuto modo di pronunciarsi su una fattispecie sì analoga a quella già esaminata dalla Suprema Corte, ma che presentava un profilo di novità. Profilo, quest’ultimo, consistente in ciò che nel caso specifico esaminato dal Giudice romano il datore di lavoro, nota Società Radiotelevisiva, “avrebbe manifestato, seppur implicitamente, il proprio consenso alla prosecuzione del rapporto di lavoro”. Consenso derivante da ciò che il datore di lavoro non solo non avrebbe mai inviato alcun tempestivo riscontro alla richiesta di poter lavorare avanzata dal dipendente prima del compimento dei 65 anni di età [requisito, questo, al verificarsi del quale la Società sarebbe legittimata, ai sensi dell’art. 33 del Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico (CNLG), a recedere dal contratto individuale di lavoro], ma avrebbe, anche, consentito al dipendente – sia pure “implicitamente” o, comunque, per effetto di un comportamento omissivo – di continuare “a lavorare per i successivi 16 mesi, ben oltre il raggiungimento dell’età pensionabile”.
Queste, in estrema sintesi, le ragioni per cui il Tribunale di Roma ha ritenuto che il consenso del datore di lavoro – essenziale, alla luce del principio di diritto enunciato dalle Supreme Sezioni Unite, perché si perfezioni l’accordo ex art. 24, comma 4, ult. cit. – può anche non assumere “forme sacramentali”. Sicché, l’accordo finalizzato alla prosecuzione del rapporto di lavoro sino al settantesimo anno di età potrebbe essere concluso persino per facta concludentia.
Di diverso avviso sembrerebbe, però, essere il Tribunale napoletano, il quale, pronunciandosi su una fattispecie – a quanto risulta – del tutto analoga a quella recentemente esaminata dal Tribunale romano, ha ritenuto che la semplice “mancata risposta alla richiesta di permanere in servizio … non ha significato univoco e concludente in tal senso”.
Conclusioni, queste, cui il Giudice monocratico è pervenuto, non da ultimo, anche in ragione di ciò che, dalle prove offerte in giudizio, è emerso come “negli incontri avuti, i dirigenti … gli [n.d.r. al lavoratore] avevano sempre verbalmente manifestato la volontà di interrompere il rapporto di lavoro”.
E così, il Tribunale di Napoli ha disatteso la tesi difensiva (subordinata) del ricorrente, basata su ciò che tra le parti sarebbe sussistito un accordo “tacito” alla prosecuzione del rapporto di lavoro.
Allo stesso modo, il medesimo Tribunale ha disatteso anche la tesi difensiva (principale) del ricorrente, fondata su ciò che il proprio licenziamento sarebbe nullo perché discriminatorio. In particolare, il fattore discriminante sarebbe costituito dall’età (id est, dall’avere 65 anni).
Sennonché, il Giudice monocratico, premesso che “si configura astrattamente discriminazione nel solo caso in cui l’età è la ragione esclusiva del licenziamento e non anche nel caso in cui alla considerazione dell’età si aggiungano altri elementi, come la maturazione del requisito pensionistico”*, ha ricordato come “la stessa Corte di Giustizia nel pronunziarsi sulla legittimità della normativa del Regno Unito che prevedeva un’eccezione al principio di non discriminazione quando la causa di licenziamento di un lavoratore dipendente che avesse raggiunto o superato i 65 anni di età fosse il pensionamento, ha affermato come ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78 le finalità che possono ritenersi «legittime» e conseguentemente atte a giustificare una deroga al principio del divieto delle discriminazioni fondate sull’età, sono obiettivi di politica sociale, come quelli connessi alla politica del lavoro, del mercato del lavoro o della formazione professionale”. Ond’è che le finalità sottese al licenziamento di un dipendente per essere in possesso dei requisiti, anagrafici e contributivi, utili per l’erogazione di un qualsiasi trattamento pensionistico, stante il loro “carattere d’interesse generale”, sono “necessariamente diverse dai motivi puramente individuali del datore di lavoro (come la riduzione dei costi o il miglioramento della competitività)”.
Tuttavia, resta ancora aperta la questione su come debba essere interpretato e, soprattutto, formalizzato il consenso del datore di lavoro alla prosecuzione del rapporto contrattuale con il proprio dipendente ex art. 24, comma 4, ult. cit.. Ad un primo esame, sembrerebbe che il discrimen tra i vari orientamenti che si sono sinora formati abbia ad oggetto l’indagine sull’effettiva volontà manifestata dal datore di lavoro.
Indagine, questa, che dovrà essere condotta rigorosamente e, soprattutto, avuto riguardo alle concrete modalità di svolgimento dell’attività lavorativa, ove – s’intende – sia stata svolta, dopo il compimento del 65esimo anno di età.

Francesco Marasco

* Si ricorda che i dipendenti iscritti all’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (INPGI) e che, ai sensi del Regolamento adottato dall’Ente previdenziale, il primo trattamento pensionistico utile è quello di vecchiaia, che si consegue – per gli uomini – con soli 20 anni di contribuzione e 65 anni di età. Non a caso, l’art. 33 del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro Giornalistico prevede, come detto, la possibilità di recesso datoriale dal contratto di lavoro al compimento del 65esimo anno di età del dipendente.

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