PROSECUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO SINO A SETTANTA ANNI – Tribunale Roma, ord., 28 aprile 2015, n. 44828, est. Sordi

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In tema di rapporto di lavoro giornalistico, la disposizione di cui all’art. 24, quarto comma, del d.l. n. 201 del 2011 (convertito con modificazioni in legge n. 214 del 2011) non riconosce un vero e proprio diritto potestativo, in favore del lavoratore, alla prosecuzione dell’attività lavorativa sino al settantesimo anno di età. Tale prosecuzione, infatti, è subordinata alla previa conclusione di un accordo espresso col datore di lavoro.

Con ordinanza ex art. 1, comma 49, della legge n. 92 del 2012, resa in data 28 aprile 2015, il Tribunale di Roma ha rigettato il ricorso presentato da un giornalista dipendente ultra-sessantacinquenne [n.d.r. il diritto alla maturazione della pensione di vecchiaia a carico dell’INPGI, cui sono iscritti anche i giornalisti dipendenti, si perfeziona, da Regolamento, col requisito anagrafico di 65 anni di età e col requisito contributivo di almeno 20 anni di effettiva contribuzione], con il quale era stato chiesto di accertare e dichiarare il diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro sino al settantesimo anno di età ai sensi e per gli effetti dell’art. 24, comma 4, del d.l. n. 201 del 2011.
Tale norma di legge prevede che “per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione e’ liquidata a carico dell’Assicurazione Generale Obbligatoria (di seguito AGO) e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, la pensione di vecchiaia si può conseguire all’età in cui operano i requisiti minimi previsti dai successivi commi. Il proseguimento dell’attività lavorativa e’ incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settant’anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita, come previsti dall’articolo 12 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 e successive modificazioni e integrazioni. Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l’efficacia delle disposizioni di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità”.
Orbene, stando alla ricostruzione del ricorrente, la sopra richiamata disposizione dovrebbe essere interepretata nel senso che “il proseguimento dell’attività lavorativa … fino all’età di settant’anni” costituirebbe un vero e proprio diritto potestativo in capo al lavoratore. Tesi, questa, che si contrappone a quella invocata dalla società resistente, secondo cui, invece, la norma di legge in esame si limiterebbe a riconoscere ad entrambe le parti interessate dal rapporto di lavoro la mera possibilità di optare per la prosecuzione dell’attività lavorativa.
Ed è questa la tesi cui il Tribunale ha ritenuto di dover aderire sia sotto il profilo “logico e di connessione” che sotto il profilo “teleologico”.
Con riguardo al primo dei due profili menzionati, in particolare, il Giudice monocratico ha osservato che non è condivisibile l’assunto secondo cui “la precisazione in tema di stabilità del rapporto [n.d.r. e, cioè, il richiamo alla “efficacia delle disposizioni di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni”], in caso di prosecuzione, esclude che il datore di lavoro possa opporsi alla richiesta del lavoratore”.
Ed invero, prosegue il Giudice romano, “la norma si limita a richiamare l’operatività del regime di cui all’art. 18 della l. n. 300/1970 «in caso di prosecuzione»”, onde resta “fermo il presupposto che il lavoratore abbia manifestato la volontà di continuare a lavorare e che il datore di lavoro abbia accettato”. Per contro, costituirebbe “un salto logico dedurre da tale richiamo che il rapporto possa protrarsi a prescindere dalla volontà del datore di lavoro”.
Con riguardo, invece, al secondo dei summenzionati profili, il Tribunale ha ritenuto che “non v’è dubbio che la norma miri a incentivare il lavoratore e che lo spirito sia quello di favorire la prosecuzione del rapporto, ma non si comprende per quale motivo una disposizione che introduce un incentivo per il lavoratore debba necessariamente prevedere implicitamente anche un obbligo in capo al datore di lavoro”.
La questione di diritto esaminata dall’ordinanza in commento non costituisce affatto un unicum nel panorama giurisprudenziale. Altri Tribunali e Corti del merito, infatti, si sono pronunciati sul punto, sia pure giungendo a conclusioni diametralmente opposte tra loro.
Della formazione di contrapposti orientamenti giurisprudenziali, del resto, è testimone lo stesso Tribunale di Roma. Ed infatti, nel corpo della motivazione dell’ordinanza in commento è richiamato un precedente del medesimo Tribunale, id est l’ordinanza n. 19764 del 2014 (rel. dott.ssa Ambrosi), secondo il quale “il modo e il tempo utilizzato nell’art. 24 co. 4, d.l. n. 201/2011 («è incentivato») indicherebbe il carattere dispositivo e immediatamente cogente della disposizione”.
Fatto è, senza volersi addentrare troppo nella disamina dei precedenti formatisi sulla questione così delineata, che il contrasto giurisprudenziale di merito è approdato, per tramite della Corte di Appello di Milano, dinnanzi alla Sezione Lavoro Suprema Corte di Cassazione. La Sezione semplice, a propria volta, preso atto della “estrema delicatezza e … particolare importanza della questione fin qui esaminata”, nonché del fatto che “qualsiasi soluzione venga adottata si finisce inevitabilmente per incidere sull’assetto degli equilibri del sistema pensionistico di una determinata categoria con ripercussioni a catena sul sistema contributivo, ipotizzato dalla normativa invocata, o su quello retributivo, applicato nella fattispecie fino al momento del licenziamento”, ha rimesso la questione di diritto al Primo Presidente “affinché valuti l’opportunità di assegnarla alle Sezioni Unite” (così, ord. 23380 del 3 novembre 2014, richiamata nella motivazione di cui all’ordinanza in commento).
Ebbene, l’udienza pubblica dinnanzi alle Supreme Sezioni Unite è stata tenuta il 26 maggio scorso, ond’è che, allo stato attuale, non è possibile sapere quando verrà emessa sentenza. A tal proposito, si tenga altresì presente che tra gli argomenti sottoposti all’attenzione del Supremo Collegio, a Sezioni Unite, rientra anche quello, invero dai risvolti piuttosto delicati, circa l’applicabilità confronti dei giornalisti dipendenti del comma 4, ovvero del comma 24, del già citato art. 24 del d.l. n. 201 del 2011.
La differenza non è certamente da poco. Ed infatti, come si evince dalla sopra richiamata ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, “la disposizione di cui al quarto comma del citato art. 24, posta a base del riconoscimento del prolungamento del servizio fino a settant’anni, presuppone che nella disciplina del calcolo della pensione siano previsti coefficienti di trasformazione del montante contributivo più favorevoli per chi esercita l’opzione per il prolungamento del servizio e che l’ammontare della pensione sia calcolato col sistema di computo contributivo o misto a seconda dei casi”. Condizioni, queste, “non presenti nel differente sistema retributivo adottato dall’I.N.P.G.I.”.
Alle Sezioni Unite della Suprema Corte spetterà, dunque, l’arduo compito di chiarire se anche ai giornalisti dipendenti iscritti all’INPGI si applichi, oppure no, ed a prescindere dal sistema di computo del trattamento pensionistico spettante, la disciplina sulla prosecuzione dell’attività lavorativa. Ciò, con tutte le inevitabili ripercussioni sugli obblighi, ormai cinquantennali, di parità di bilancio che incombono su tutti gli Enti previdenziali privatizzati ex d.lgs. n. 509 del 1994.
Tra cui, appunto, l’INPGI.

Francesco Marasco

* Di prossima pubblicazione su “Lavoro a previdenza oggi” (www.lpo.it)

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