MOBBING E …“DINTORNI” – Tribunale Latina 8 novembre 2016, giud. Foderaro

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Lavoro privato – Mobbing – Nozione – Danno psico-fisico conseguente – Nesso di causalità – Concausa efficiente della situazione lavorativa – Sufficienza – Danno non patrimoniale – Liquidazione equitativa – Utilizzazione tabelle milanesi
Il mobbing costituisce illecito civile perpetrato dal datore di lavoro in violazione del precetto generale di cui all’art. 2087 c.c., che si sostanzia in una serie di condotte, di per se stesse anche lecite, reiterate nel tempo, persecutorie ed irragionevoli, sistematicamente dirette ad ingenerare una situazione di persistente progressiva conflittualità lavorativa, tale da cagionare danni all’integrità psico-fisica del lavoratore perseguitato, quali stress, depressione, calo dell’autostima, autobiasimo, fobie, disturbi del sonno, problemi digestivi; per l’effetto, il danno psico-fisico accertato può ritenersi conseguente, nonostante eventuali aspetti personologici (tratti patologici o disturbi della personalità preesistenti), quando la situazione lavorativa rappresenti un apporto concausale.

Lavoro privato – Licenziamento per superamento del periodo di comporto – Assenze per malattia imputabili al datore di lavoro (art. 2087 c.c.) – Non computabilità

Nel caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto, non sono computabili le assenze del lavoratore dovute a malattia (indipendentemente dalla qualificazione quale malattia professionale) causalmente riconducibile a responsabilità del datore di lavoro per violazione degli obblighi contrattuali di cui all’art. 2087 c.c.

Artt. 2087 e 2110 c.c.

Il caso in commento riguarda un lavoratore che aveva chiesto il risarcimento del danno derivante da c.d. costrittività organizzativa, elencando una serie di episodi, verificatisi nell’arco di alcuni anni, di cui sarebbe stato vittima sul lavoro.
Il Giudice, in mancanza di una domanda di accertamento della sussistenza di una malattia professionale indennizzabile dall’Inail, riqualifica l’oggetto del giudizio sulla base della, ormai diffusa, definizione del mobbing.
In particolare, il Tribunale ritiene provate e vessatorie sia alcune condotte poste in essere da colleghi del ricorrente, rese note al datore di lavoro, il quale però aveva omesso di adottare gli opportuni provvedimenti, sia la progressiva sottrazione di mansioni e strumenti di lavoro, avvenuta a seguito della richiesta di riconoscimento di mansioni superiori, così come l’adibizione a lavorazioni richiedenti macchinari non risultati del tutto in regola con le prescrizioni in materia di sicurezza.
Nella sentenza si legge che “dall’esame complessivo di tali condotte, traspare un unitario intento persecutorio della parte datoriale, dapprima concretatosi in una omissione di provvedimenti volti ad impedire la reiterazione di comportamenti vessatori dolosi da parte dei colleghi di lavoro del ricorrente, in realtà noti ai suoi superiori gerarchici, dipoi, in una evidente volontà di indebolire la posizione del lavoratore, inducendolo ad abbandonare la richiesta di mansioni superiori o adibendolo a lavorazioni pericolose”.
In verità, dalla lettura della motivazione della sentenza, non si ricava il come sia stato provato “un unitario intento persecutorio”: nella pronunzia è scritto che ciò “traspare” “dall’esame complessivo” delle condotte; sembrerebbe, dunque, che, pur non facendone cenno, il Tribunale ritenga provato l’intento, applicando l’istituto della presunzione (art. 2729 c.c.), sulla base della successione cronologica degli episodi.
Tuttavia, poiché le condotte mobbizzanti coprono un arco pluriennale, con comportamenti temporalmente molto distanziati tra di loro, potrebbe dubitarsi della sistematicità della vicenda.
Come noto e come pure ricordato nella sentenza, la reiterazione nel tempo e la sistematicità degli episodi rappresentano elementi costitutivi della nozione di mobbing, unitamente all’elemento soggettivo (Cass. n. 19180 del 2016; Cass. n. 5230 del 2016; Cass. n. 1258 del 2015).
Per questo, tali aspetti avrebbero meritato una motivazione espressa.
In effetti, la Suprema Corte ha, da anni, dato una “stretta” alla definizione, sottolineando l’importanza di assolvere gli oneri probatori su tutti gli elementi costituenti la fattispecie, elementi così sintetizzabili: la condotta deve protrarsi in modo sistematico, non episodico m continuativo e protratto nel tempo, deve essere tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, deve concretizzarsi in comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, quali espressione di un disegno finalizzato alla prevaricazione, alla persecuzione psicologica o vessazione del lavoratore, tale da provocare la mortificazione e l’emarginazione del dipendente, con un effetto lesivo sulla salute psico-fisica dello stesso e sul complesso della sua personalità (così, ex multis, Cass. n. 3875 del 2009; Cass. n. 87 del 2012; Cass. n. 11547 del 2015; Cass. n. 2412 del 2015; Cass. n. 9899 del 2016; Cass. n. 74 del 2017; Cass. n. 2012 del 2017).
Tanto è vero che, dopo Cass. n. 10037 del 2015, è stato definitivamente chiarito che sono sette i parametri che la vittima deve provare in giudizio e fanno riferimento a: ambiente, durata, frequenza, tipo di azioni ostili, dislivello tra le parti, andamento per fasi successive, intento persecutorio.
In proposito, si segnala il riconoscimento giurisprudenziale (Cass. n. 3291 del 2016) della nozione di straining, quale stress forzato sul posto di lavoro e come forma attenuata di mobbing, nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie: la condotta nociva può realizzarsi con una azione unica ed isolata o con più azioni ma prive di continuità (cfr., ad es., Cass. n. 18927 del 2012 o Cass. pen. 28603 del 2013).
Con riferimento, poi, al danno psico-fisico lamentato dal ricorrente, il Tribunale, all’esito di una CTU, ritiene sussistente l’efficienza causale della situazione lavorativa avversativa: in altri termini, il Giudice, pur non negando l’eventuale sussistenza di un tratto patologico di personalità tipico del lavoratore, qualifica le condotte vessatorie, subite dallo stesso, come concausa efficiente della patologia sviluppata (depressione maggiore con 20% di invalidità).
Nel caso in esame, è stato riconosciuto anche il danno non patrimoniale, comprensivo della sofferenza morale e del peggioramento della qualità della vita sotto il profilo del fare areddituale: tale danno è stato liquidato secondo equità, “non solo come regola del caso concreto, ma anche come garanzia di parità di trattamento alla luce dell’art. 3 Cost.)”, con utilizzazione delle tabelle di Milano, anche ai fini della c.d. personalizzazione.
Altra interessante questione affrontata dalla sentenza in commento è quella dell’accertata non computabilità, nel periodo di comporto, delle assenze del lavoratore dovute a malattia (indipendentemente dal fatto della sua qualificazione come malattia professionale) causalmente riconducibile a responsabilità del datore di lavoro per violazione degli obblighi contrattuali di cui all’art. 2087 del Codice civile.
Nel caso di specie, il Tribunale, dopo aver verificato che, per oltre il 60% dei giorni di assenza, il ricorrente risultava affetto, come comprovato dai certificati prodotti, da una sindrome ansioso-depressiva, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento, richiamando un orientamento giurisprudenziale consolidato, che, nato con riferimento alle assenze conseguenti ad infortunio o malattia professionale, si è poi esteso (Cass. n. 26307 del 2014; Cass n. 14643 del 2013; Cass. n. 18711 del 2006). In tema, cfr., altresì, proprio su mobbing e detrazione delle assenze per malattia dal calcolo del comporto, Cass. n. 22538 del 2013.
Infatti, anche da ultimo, la Suprema Corte ha confermato questo insegnamento in un caso in cui le assenze per malattia erano riconducibili ai postumi traumatici sofferti dal dipendente a seguito di una rapina subita nei locali dell’azienda (Cass. n. 21901 del 2016).

Iolanda Piccinini

*Di prossima pubblicazione su “Lavoro e previdenza oggi” (www.lpo.it)

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