LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO E LICENZIAMENTO INGIURIOSO – PERSECUTORIO: DIFFERENZE, RISARCIMENTO DANNI E ONERE DELLA PROVA – Tribunale di Roma, sent., 22 aprile 2015, est. Garzia

martello microfoni

Nel caso di licenziamento discriminatorio, la discriminazione prescinde dall’intento persecutorio e deriva all’oggettiva disparità di trattamento, non essendo componenti necessarie dell’atto discriminatorio, né l’intento vessatorio, né le modalità ingiuriose e persecutorie dell’atto di recesso.
Il carattere ingiurioso del licenziamento, che, in quanto lesivo della dignità e dell’onore del lavoratore, dà luogo al risarcimento del danno, non si identifica con la mancanza di giustificatezza dello stesso, bensì con le particolari forme o modalità offensive del recesso del datore di lavoro, le quali vanno provate da chi le adduce unitamente al lamentato pregiudizio, mentre l’indennità spettante ex art. 18 St. Lav. al dipendente illegittimamente licenziato è destinata a risarcire il danno intrinsecamente connesso alla impossibilità materiale per il lavoratore non reintegrato di eseguire la propria prestazione lavorativa.
(Massime a cura di Rosalinda Montesarchio)
Licenziamento discriminatorio e licenziamento ingiurioso o persecutorio – differenze – coincidenze tra discriminazione e intento persecutorio – insussistenza.
Risarcimento danni da licenziamento ingiurioso – accertata ingiustificatezza del recesso – spettanza dei danni – insufficienza – onere della prova su forme e modalità offensive – prova – necessità.

Nel caso in esame il ricorrente chiedeva il risarcimento dei danni all’immagine, alla professionalità, alla dignità e alla salute dipendenti da un “traumatico, illegittimo e irragionevole licenziamento”. Il Giudice, premesso l’accertamento, avvenuto in altro giudizio, circa la sussistenza di ragioni discriminatorie alla base del licenziamento, ricostruisce innanzitutto la differenza tra licenziamento discriminatorio e licenziamento ingiurioso sotto lo specifico profilo dei danni che possono conseguirne in modo diretto e indiretto. Interessanti appaiono poi le considerazioni svolte nella sentenza con riferimento al rapporto tra tutela ex art. 18 St. Lav. e i danni alla persona del lavoratore.
In particolare, il Giudice ha ritenuto infondate le richieste del lavoratore, reputando che i danni lamentati non fossero supportati da prove certe e da correlazione eziologica al licenziamento.
Confermando il principio consolidato in giurisprudenza, nella sentenza si afferma che: “il danno all’integrità psicofisica del lavoratore, cagionato dalla perdita del lavoro e della retribuzione, è una conseguenza soltanto mediata ed indiretta del recesso datoriale e, pertanto, non è risarcibile, salvo che nell’ipotesi di licenziamento ingiurioso (o persecutorio o vessatorio) trovando la sua causa immediata e diretta non nella perdita del posto di lavoro, bensì nel comportamento intrinsecamente illegittimo del datore di lavoro”. Pertanto, la risarcibilità dei danni derivanti dall’illecito licenziamento subito è possibile – in quanto conseguenza diretta della condotta posta in essere dal datore di lavoro – esclusivamente se l’illegittimità della condotta è ravvisabile nella volontà (ulteriore) di colpire e ledere la persona del lavoratore.
Il licenziamento discriminatorio, invece, si sostanzia in un pregiudizio oggettivo da cui origina l’intenzione di “liberarsi” di un lavoratore. Per cui il danno nasce e si risolve sulla perdita del posto di lavoro.
In senso contrario, nell’ipotesi di licenziamento ingiurioso (o persecutorio o vessatorio), la causa da cui deriva l’atto di recesso, consiste nella volontà di ledere, offendere, opprimere la persona del lavoratore. Ciò determina, quindi, quale conseguenza diretta e riflessa sul lavoratore, un danno ulteriore a quello scaturente dalla perdita del posto di lavoro. Invero, da ogni ipotesi di licenziamento ingiustificato il lavoratore può patire ulteriori lesioni e quindi danni, ma addebitabili al datore solo se conseguenza intrinseca del suo comportamento. E’ questo il presupposto per il riconoscimento del danno, e poiché prevedibile, è anche conseguenza diretta dell’azione illecita (cfr. Cass. Lav. sent. n. 5730/2014; Cass. Lav. sent. n. 5927/2008).
In sostanza, la sentenza in commento, pur considerando il disvalore giuridico di un licenziamento discriminatorio, anche in ragione della tutela reintegratoria tuttora riconosciuta, si discosta dalla pronuncia della Corte di Cassazione, n. 63/2015, che ha assimilato il licenziamento discriminatorio ad uno persecutorio. Nel caso che ci occupa invece il Tribunale di Roma ha ribadito che sul lavoratore ricade l’onere della prova sia delle particolari forme o modalità offensive che hanno accompagnato l’atto di recesso, sia del pregiudizio che ne è derivato.
In conclusione la sentenza nega la spettanza sia del danno biologico (in quanto non provato), sia di quello professionale (essendo stato il lavoratore reintegrato), sia del danno all’immagine e alla dignità, poiché, a parte il mero difetto di giustificazione del recesso, non risultavano provate forma e modalità di esercizio dell’atto di licenziamento tali da ledere la dignità e l’onore del dipendente.

Rosalinda Montesarchio

* Di prossima pubblicazione su “Lavoro a previdenza oggi” (www.lpo.it)

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