LE SEZIONI UNITE DELLA CORTE DI CASSAZIONE RIAFFERMANO LA NULLITA’ DEL LICENZIAMENTO PER ECCESSIVA MORBILITA’ INTIMATO PRIMA DELLA MATURAZIONE DEL PERIODO DI COMPORTO – Corte di Cassazione, SS.UU. n. 12568 del 22 maggio 2018 – Pres. Mammone, Est. Manna

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Il licenziamento, intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore prima del superamento del periodo massimo di comporto, fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110 c. 2 c.c.

Lavoro subordinato – Licenziamento per eccessiva morbilità – Intimazione in costanza di malattia – Mancata scadenza del periodo di comporto – Nullità

Art. 2110, c. 2, c.c. – Art. 1324 c.c. – Art. 1343 c.c. – Art. 18, c. 1, l. n. 300/70

Con sentenza pubblicata il 27.10.15 la Corte d’Appello di Cagliari rigettava il gravame del lavoratore contro la sentenza del 5.10.12 con cui il Tribunale aveva respinto l’impugnazione del licenziamento intimatogli con lettera dell’8.7.04, per superamento del periodo di comporto e dichiarava assorbito l’appello incidentale.

Statuivano i giudici di merito che, sebbene il periodo di comporto in realtà non risultasse esaurito alla data di intimazione del licenziamento, nondimeno il recesso fosse da considerarsi non già invalido, bensì meramente inefficace fino all’ultimo giorno di malattia, vale a dire fino alla data in cui il periodo massimo di comporto risultava ormai scaduto.

Aggiungevano a tal fine che era irrilevante che il lavoratore si fosse presentato in azienda per riprendere servizio per tre giorni, prima della maturazione del comporto, non essendo in possesso d’un certificato medico che ne attestasse la guarigione.

Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso per cassazione il lavoratore, affidandosi a tre motivi, mentre l’impresa resisteva con controricorso, spiegando ricorso incidentale basato su un unico motivo.

Con ordinanza interlocutoria n. 24766/17, la sezione lavoro della S.C. rilevata l’esistenza di due non coerenti indirizzi giurisprudenziali – l’uno che afferma la mera inefficacia del licenziamento irrogato in costanza di malattia, posticipata alla cessazione dello stato patologico e l’altro che asserisce la nullità del licenziamento irrogato prima che risulti esaurito il periodo di comporto –

rimetteva i ricorsi alle Sezioni Unite.

Il Supremo Collegio, con motivazione del tutto condivisibile, che ricostruisce attentamente l’esegesi dei due opposti orientamenti, ha rilevato che i precedenti (Cass. n. 1657/93 e Cass. n. 9037/01) – che hanno esplicitamente affermato l’inefficacia del licenziamento intimato in ragione del protrarsi delle assenze per malattia del lavoratore, prima, però, che si sia esaurito il periodo di conservazione del posto di lavoro – rinviano, a loro volta, acriticamente, ad altri precedenti (Cass. n. 1151/88 e Cass. n. 9032/2000), che tuttavia, muovono da presupposti diversi.

Invero, osservano le Sezioni Unite che le sentenze che hanno statuito il differimento dell’efficacia del licenziamento sino allo scadere del periodo di comporto l’hanno fatto in relazione a licenziamenti alla cui base vi era già un motivo di recesso diverso e autonomo dal mero protrarsi della malattia, vale a dire a licenziamenti intimati o per giustificato motivo oggettivo (Cass. n. 23063/13 e Cass. n. 4394/88) o per giustificato motivo oggettivo, derivante da sopravvenuta inidoneità a determinate mansioni (Cass. n. 239/05), o per riduzione di personale (Cass. n. 7098/90), o per giusta

causa (Cass. n. 11087/05), o per giustificato motivo oggettivo rispetto al quale era, poi, sopraggiunta una giusta causa di recesso considerata come idonea di per sè a risolvere immediatamente il rapporto, ancor prima che cessasse lo stato di malattia (Cass. n. 64/17), o per licenziamento ad

nutum (Cass. n. 133/89).

In tutte le suddette ipotesi, rilevano, infatti, le Sezioni Unite, che il perdurante stato di malattia non costituiva il motivo del recesso ma elemento ad esso estrinseco e idoneo soltanto a differire l’efficacia del licenziamento; mentre nella fattispecie in esame tale situazione integrava di per sé l’unica ragione del recesso.

Viene, altresì, precisato, in motivazione, che l’opzione interpretativa del differimento dell’efficacia del recesso fino a quando non si sia consumato il periodo massimo di comporto, oltre a contrastare con la sentenza delle Sezioni Unite n. 2072/80 e con la successiva conforme giurisprudenza, risulta del tutto incoerente con la teoria generale del negozio giuridico.

Il Supremo Collegio aveva, infatti, già da tempo escluso che l’ipotesi di cui all’art. 2110 c.c.., c. 2 – riferito tanto al comporto c.d. secco che a quello c.d. per sommatoria – ove si prevede che il datore di lavoro può recedere dal rapporto solo dopo la scadenza del periodo all’uopo fissato dalla contrattazione collettiva ovvero, in difetto, determinato secondo usi o equità, integrasse un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3.

Di tal che, costituendo un’ipotesi a sé stante di recesso, ammettere come valido, ancorché momentaneamente inefficace, il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto, significherebbe, secondo le Sezioni Unite, consentire un licenziamento che, all’atto della sua intimazione, sarebbe ancora sprovvisto dei necessari presupposti causali e non sarebbe neppure sussumibile in altre autonome fattispecie legittimanti, come, per l’appunto, quella prevista dall’art. 2110, c. 2, c.c. cit.

Di qui la nullità del licenziamento per violazione delle norme imperative di legge e non già la mera inefficacia differita nel tempo, con conseguente applicazione del regime di tutela apprestato dall’art. 18, commi 1 e 2, l. n. 300/70.

Avv. Enrico Maria Terenzio

*Di prossima pubblicazione su “Lavoro a previdenza oggi” ( www.lpo.it )

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