In ricordo del Professor Sergio Magrini

prof magrini

Pubblichiamo l’intervento del Prof. Antonio Pileggi nella Giornata di Studio Aidlass del 19 maggio 2017 svoltasi presso l’Università degli Studi di Cassino.

Grazie Presidente. Mi interrompa pure se dovessi sforare, perché non è affatto facile ricordare il Prof. Magrini in un quarto d’ora. Ci vorrebbero almeno due giornate: come quelle, per l’appunto, organizzate magistralmente dal Prof. Pessi il 5 ed il 12 maggio scorso: la prima sul pensiero scientifico di Sergio Magrini e la seconda sulla sua personalità. Due giornate intensissime, bellissime, commoventi, intime, affettuose. Il Cons. Perina, che non è voluto mancare, colpito dalla partecipazione e dalla commozione così sincera di chi lo ha ricordato, le ha definite irripetibili.
Merito certamente del Prof. Pessi, del suo carisma e dell’amore fraterno che ha dimostrato per il Prof. Magrini. Senza amore queste cose non riescono. Ma merito certamente del Prof. Magrini e dell’eredità che ha lasciato, nonostante il carattere burbero ed intemperante. Un “burbero benefico”, una miniera di umanità, come ha ricordato il Prof. Pessi nell’aprire le due giornate.
E’ stato come se fosse presente e dialogasse con molti dei professori che vedo anche oggi qui presenti, appartenenti sovente a scuole diverse, che si sono confrontati con i suoi scritti e, magari, l’hanno scoperto o riscoperto.

Ora in appena un quarto d’ora, da Suo allievo “croce e delizia”, come ha scritto di me, ho il difficile compito di ricordare, soprattutto ai più giovani, le tre vite che ha vissuto e che gli hanno fatto vivere il diritto del lavoro da tre prospettive diverse.
Dapprima come magistrato, dal 1965 fino al 1980, ma anche come libero docente dal 1973 e, poi, come amava ricordare lui, da “spretato”, cioè da ex magistrato, nel ruolo di professore universitario e di avvocato, pur rimanendo magistrato sin nel midollo: da avvocato, diceva, collaborava con il giudice nel rendergli la vita più facile per trovare la soluzione giusta.
In tutte le vite che ha vissuto il Prof. Magrini ha portato la propria assoluta, intransigente, coerenza, la propria assoluta onestà intellettuale, la propria elegante ma a volte anche sferzante ironia (che tanto piaceva al Prof. Pera, cui doveva molto), l’amore per i valori del diritto del lavoro. Una materia che, da studioso, ha scelto e che ha preferito al diritto internazionale pubblico: materia nella quale si era laureato ed aveva abbandonato perché, come aveva confidato al Suo relatore, Prof. Barile, con la sua consueta franchezza gli sembrava un po’ troppo “fuffa e chiacchiere”. L’ha ricordato il nostro Presidente Prof. Ricci, nell’inaugurare la prima delle giornate in suo onore di cui dicevo.

Professore ed avvocato dicevamo: ruoli che considerava assolutamente complementari (pur ammirando gli studiosi puri e le costruzioni teoriche e sistematiche), perché per capire fino in fondo il diritto del lavoro nei suoi risvolti vitali, e farlo capire ai tuoi studenti, devi sporcarti le mani, contaminarti: lo devi applicare, praticare, vivere sulla tua pelle; devi soffrire per una causa persa (magari prendertela con il giudice, legartela al dito) e gioire per una causa vinta (ma è molto più intensa e duratura la sofferenza per un causa persa). Perché ci credi, perché non sei cinico, perché in una sentenza giusta vedi un barlume di giustizia terrena, un trailer di giustizia divina.
Il Prof. Magrini non si è mai rassegnato al brocardo habent sua sidera, lites, o, in termini più prosaici, all’idea consolatoria che le cause si vincono e si perdono. Tanto, tot capita tot sententiae, ovvero, secondo la maccheronica traduzione ricordata spesso dal Prof. Magrini, “tutto capita nelle sentenze”: me lo ricordava ieri sera il Prof. Prosperetti a cena.
Come ha detto il Prof. Pessi nel ricordarlo, ciò di cui lo ringrazio molto, mi ha trasmesso l’amore viscerale per la professione, per il diritto del lavoro e per l’insegnamento del diritto del lavoro.
E nel mio piccolo, cerco di insegnare un diritto vivente, palpitante di vita giudiziaria appena vissuta.
Quando arrivo trafelato a lezione mi scuso con gli studenti dicendo loro che sono appena tornato da un’udienza per procurarmi il caso pratico da trattare a lezione o di avere portato una sentenza fresca di giornata e che ormai faccio l’avvocato soltanto per procurarmi gli esempi da fare a lezione.

Dedicava moltissimo tempo agli studenti. Li amava e li rispettava. E dedicava molto tempo alla professione. Nel suo elegantissimo studio, circondato da una giungla ordinata di piante amorevolmente curate, stracolmo di affascinanti oggetti antichi comprati nei mercatini all’alba (macchine da scrivere, calamai, scrittoi). Lo ricordo, le maniche rimboccate e le mani nell’acquario, a sistemare piante acquatiche, sommerso dai pensieri (e dalle scadenze), che così non lo travolgevano. C’è una vignetta di una sua segretaria che immortala il momento. E questo mi consente di dire che era molto amato dai collaboratori di studio e dal personale della segreteria universitaria, oltre che dai colleghi di università. Ricordo il dolore del Prof. Paganetto per la sua scomparsa.

Si lamentava di non avere abbastanza tempo per scritti scientifici. Progettava (ed aveva iniziato a scrivere) il Suo manuale. Il manuale che ci manca. E si definiva un professore orale, da relazione o intervento ai convegni, sempre caustico, ironico. Il mio regno per una battuta, amava dire.
Ma non è vero. Ha scritto tantissimo specie se consideriamo la densità dei suoi scritti.
Non era uno che menava il can per l’aia, andava subito al sodo. Era lucidissimo. Copiava dai suoi pensieri. Ecco perché aveva facilità di scrittura. Se solo avesse potuto collegare una stampante! Aveva le idee chiare. Non provava a schiarirsele scrivendo, come fa qualcuno, tanto tutto si traduce in una ponderosa monografia, ed è possibile spacciare ciò che è confuso e non meditato in un discorso problematico.

In un convegno di tre giorni dell’autunno 2009 organizzato dall’inesauribile Prof. Pessi, con il Prof. Vallebona in onore dei nostri tre Maestri (Magrini Perone e Sandulli), il Prof. Suppiej, che con il Prof. Ubaldo Prosperetti, il Prof. Magrini considerava suo Maestro, ha scritto di loro, come esponenti di punta della all’epoca bistrattata scuola romana, considerata una scuola di esegeti, causidici, immuni ai condizionamenti sociologici, politici ed economici, quanto qui vorrei leggervi:
I giuristi che appartengono a questa scuola non cercano mai di spacciare per opinione del legislatore quello che il legislatore non ha mai pensato, perché sembra loro opportuno che ci sia la norma di un certo tipo. Io credo che nessuno della scuola si azzarderà mai a fare una cosa del genere. Certo, non sempre sono d’accordo con quello che una certa norma dice, ma quando non sono d’accordo, lo dicono: «questa norma dice così e secondo me è fatta male», perché dovrebbe dire invece una cosa diversa. E questo è onesto, ma non è onesto far passare per volontà legislativa quello che il legislatore non ha mai voluto, fenomeno che si verifica molto largamente, particolarmente oggi.
Chi appartiene a questa scuola ha appreso, fin dall’insegnamento del nostro comune maestro, Francesco Santoro Passarelli, che l’interprete deve prima di tutto interpretare; poi semmai dirà la sua, ma non è corretto e non è onesto far passare per linguaggio, per precetto del legislatore quello che il legislatore non ha mai voluto. In questa scuola è stato insegnato che questo non si deve fare e non si fa. Magrini, Perone Sandulli non hanno mai compiuto atti disonesti di questo tipo, non hanno mai nella loro qualità di giuristi, fatto passare per volontà legislativa quella che era volontà loro e non era volontà legislativa. È un grande pregio, perché è raro come le perle d’oriente”.
Ed a proposito del Prof. Magrini, ha ricordato come esempio “il suo manuale relativo al processo del lavoro: è di una chiarezza cristallina. Lo può leggere un bambino perché lo capisce un bambino. Ed è al tempo stesso di una precisione straordinaria. Il Prof. Magrini, poi, ha scritto un po’ di tutto, ma senza perdere tempo a pubblicare volumi di duecento pagine per dire cose che si potevano raccontare in dieci pagine”.

E quella chiarezza era apprezzata anche dai giudici. Era un piacere leggere i suoi atti, magari, sorridendo per quella battuta che non mancava mai (e questo era il complimento che preferiva).
Ed in effetti il Prof. Magrini non s’è mai preoccupato di essere controcorrente, di non essere considerato politicamente corretto. Anzi, negli anni in cui la dottrina e la giurisprudenza si proiettavano ben oltre il diritto positivo è sempre stato fermo nella difesa del diritto positivo.

Ricordo – per averla vissuta giorno e notte con lui – la sua relazione al convegno AIDLASS del 1990. Ventisette anni fa. Una relazione dal titolo geniale: Licenziamenti individuali e collettivi: parallelismo e convergenza delle tutele. Dopo appena un anno sarebbe intervenuta la legge n. 223 del 1991.
Ricordo la battuta sul “normicidio” dell’art. 11, cpv. della 604 del 1966, sia pure “con l’attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale”. L’acronimo della parola “capoverso”, inteso come se fosse l’acronimo di “capovolto”: la materia dei licenziamenti collettivi per riduzione del personale è inclusa (non esclusa) nelle disposizioni della presente legge.
Un saggio in una battuta.
Il Prof. Magrini ricordava come, per sfuggire alla sommatoria delle tutele (esito del processo di attrazione del licenziamento collettivo nella disciplina dei licenziamenti individuali, motivato dal timore della frode alla legge che, cioè, il datore intimasse come collettivi licenziamenti individuali mirati, così da sottrarli al controllo giudiziale), le imprese avessero da ultimo finito addirittura per intimare i licenziamenti come individuali.
La storia si ripete. Oggi pure i licenziamenti, opportunamente scaglionati nel tempo (quattro ogni centoventi giorni), sono artatamente intimati come individuali, per aggirare la disciplina licenziamenti collettivi, ed in particolare i criteri di scelta, la cui violazione è tuttora sanzionata con la reintegrazione nel posto di lavoro, almeno per i vecchi assunti: frodi suggerite stavolta dall’insipienza legislativa.

Ed ora che il clima è completamente cambiato, la coerenza del Prof. Magrini, il restare fermo rispetto all’oscillazione del pendolo dei valori, o delle convenienze, l’ha quasi portato a trovarsi dall’altra parte, a difesa dei valori del diritto del lavoro contro l’imperante tutela del contraente forte, talora palpabile nelle aule giudiziarie, sempre più desolatamente vuote, e dove capita talora di respirare più diffidenza per il lavoratore che per quel datore di lavoro che, magari, sin troppo scopertamente vuole liberarsene, e la principale misura deflativa del contenzioso è il rigetto del ricorso.

Quella stessa coerenza, l’ha portato a guardare con una certa diffidenza alla privatizzazione del pubblico impiego, ed a non scomunicare l’allievo, per la tesi “eretica” da lui sostenuta.
Questo non è vero diritto del lavoro: è diritto dell’organizzazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni; è diritto della dirigenza pubblica (perché imiti quell’imprenditore privato all’epoca ancora considerato una sorta di soggetto socialmente pericoloso dal diritto del lavoro); è diritto del rapporto d’ufficio, della funzione pubblica (l’incarico dirigenziale), non del rapporto servizio. Lo stato legifera a casa propria per renderla più efficiente, con norme di organizzazione, non di azione.
Nel 1992 uno dei padri più autorevoli della privatizzazione, nell’introdurre un volume dal titolo “L’impiego pubblico nel diritto del lavoro”, scriveva: “d’ora in avanti il legislatore dovrà scrivere leggi applicabili tanto ai dipendenti da imprenditori e datori di lavoro privati quanto ai dipendenti da amministrazioni pubbliche”.
Le ultime parole famose.
Non sono forse leggi separate per i dipendenti pubblici tutte le riforme susseguitesi dal 1992 (Amato, Bassanini, Frattini, Brunetta, Madia)? E tutte le riforme del mercato del lavoro (dalla legge Biagi alla Fornero al Jobs Act), non hanno sempre escluso il lavoro pubblico?
Fedeltà al diritto positivo, diceva il Prof. Suppiej.

Certo per uno chiaro e diretto come il Prof. Magrini era diventato sempre più difficile restare fedele al diritto positivo (nella stagione che sono tentato talora di definire del “diritto del lavoro dei faccendieri”: fatto da faccendieri per faccendieri).
Era diventato sempre più difficile prendere sul serio un legislatore che legifera in edizione twittabile; che dice di voler fare una cosa, per fare esattamente il contrario; che, ad esempio, dice di voler combattere la precarietà del lavoro favorendo il contratto a tempo indeterminato, e liberalizza il contratto a termine, suggerendo alle imprese di sfruttare le cinque proroghe che mette loro a disposizione; che dice di “superare” la disciplina del lavoro a progetto in quanto elusiva, per introdurre una disciplina ben più elusiva (riesumando le vecchie collaborazioni coordinate e continuative e suggerendo alle imprese di farsi certificare l’assenza dei requisiti delle collaborazioni organizzate dal committente) e addirittura dispone del tipo legale lavoro subordinato (attraverso le eccezioni all’estensione della disciplina del lavoro subordinato a collaborazioni che i giudici avrebbero probabilmente comunque qualificato come di lavoro subordinato).
Un legislatore che riesce a rendere accattivante grazie ad un titolo bugiardo ed elusivo (“Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”) la legge che rende inapplicabile l’art. 18 per i nuovi assunti.

Ed il Prof. Magrini reagiva con le sue armi preferite: l’ironia ed il sarcasmo.
Ricordiamo tutti lo scritto su “quer pasticciaccio brutto (dell’art. 18)” e la profezia (agevole per un ex giudice del lavoro) sull’interpretazione della nozione di “fatto contestato” che sarebbe poi stata accolta, ad onta delle aspettative dei fautori della tesi del fatto materiale (“e per fortuna che sono tecnici”, commentava). La reintegrazione sarebbe stata la regola in tutti i casi di accertamento della mancanza contestata o di mancanza di proporzionalità.
E chiudeva con le seguenti parole: “se la riforma deve essere fatta così, teniamoci stretto il buon art. 18, stagionato da oltre quarant’anni. Anche per questo aspetto, sovviene il dialetto romanesco. Non quello del romanzo di Carlo Emilio Gadda che ispira il titolo di questo articolo, ma quello di un anonimo trasteverino, del quale si narra che – avendo sperimentato, dopo la caduta del fascismo, qualche mese della neonata democrazia repubblicana – tracciò su di un muro, a lettere cubitali, la scritta: «aridatece er puzzone!»”.

Chiudo con un ricordo di persone alle quali il Prof. Magrini voleva davvero bene e che ne volevano al Prof. Magrini.

Il Presidente Miani Canevari, un altro “burbero benefico” che il Prof. Magrini chiamava Robespierre apprezzandone l’intransigenza: una corazza che custodiva una grandissima umanità.

E poi il Prof. Hernandez e la Prof.ssa Galantino.
Li ricordo spesso insieme e li associo nel ricordo.
E ricordo sempre un episodio.
Il 16 ed il 17 maggio 2003 si svolse a Trapani un bellissimo convegno sulla legge n. 30 del 2003, appena approvata. Nel suo intervento, la Prof.ssa Galantino cercò di raccontare un episodio vissuto con il Prof. Hernandez, scomparso qualche giorno prima, il 29 aprile 2003: nelle pause di un concorso universitario la commissione passeggiava per le strade di Bologna ed il Prof. Hernandez dava soldi a tutte le persone che glieli chiedevano.
La Prof.ssa Galantino gli domandava allora: ma dai soldi proprio a tutti, tutti?
Il Prof. Hernandez, con il suo ineffabile, amabilissimo sorriso, le rispondeva: se un uomo ha il coraggio di tendermi la sua mano io non ho il coraggio di tirare indietro la mia.
Nel raccontare l’episodio, la Prof.ssa Galantino scoppiò a piangere e le fu impossibile andare avanti.
Ora spero si incontrino tutti da qualche parte.

Antonio Pileggi

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