DISCRIMINAZONE RELIGIOSA RICONOSCIUTA NELLA MANCATA ASSUNZIONE DI HOSTESS DI RELIGIONE MUSULMANA CHE INDOSSA IL VELO (HIJAB) – Corte di Appello di Milano, 20 maggio 2016, n. 576, pres. Vitali

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Atteso che una condotta venga considerata discriminatoria ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 216 del 2003, attuativo della dir. CE n. 78 del 2000 per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, assume una dirimente importanza la presenza delle cd. “cause di giustificazione”, che escluderebbero la discriminatorietà dell’atto posto in essere, come specificato dall’art. 3, comma 3 del decreto legislativo in esame.

Discriminazione religiosa – uso del velo (hijab) – mancata assunzione – disciplina applicabile -assenza di “cause di giustificazione”
Art. 2, d.lgs. n. 216/2003 – art. 3, c. 1, d.lgs. n. 216/2003 – art. 3, c. 3, d.lgs. n. 216/2003 – art. 43, d.lgs. n. 286/1998
La Corte di Appello di Milano è stata chiamata a dirimere una controversia in materia di discriminazione perpetrata nei confronti di una donna di religione musulmana, non ammessa alla preselezione di assunzione a causa del suo rifiuto di togliersi il velo, cd. hijab, che copre i capelli lasciando visibile soltanto il volto.
In seguito al rigetto del ricorso promosso ex art. 28 del d.lgs. n. 150/2011, l’aspirante hostess ha impugnato l’ordinanza del Tribunale di Lodi del 7.7.2014, che non aveva riconosciuto il carattere discriminatorio nel comportamento della società addetta alla selezione di candidate.
L’appellante professa la religione musulmana e, come consigliato dal testo sacro del Corano, indossa il velo quale segno di appartenenza alla comunità islamica.
La ricorrente, ricevuta una proposta di lavoro per lo svolgimento di mansioni di volantinaggio in una fiera della calzatura, ritenendo di possedere tutti i requisiti richiesti, rispondeva all’annuncio e allegava una propria fotografia. La società appellata constatata la mancata disponibilità della ricorrente a togliersi il velo, comunicava a quest’ultima la decisione di non candidarla per la selezione che sarebbe stata svolta dai loro clienti.
La società di reclutamento ha addotto, quale giustificazione alla mancata selezione della ricorrente, la richiesta scritta da parte dei committenti di “ragazze preferibilmente con capelli, lunghi, sciolti e vaporosi”.
Il Giudice di prime cure non ha ravvisato nei confronti della società appellata né una condotta discriminatoria “diretta” ai sensi dell’art. 2, lettera a, del d.lgs. n. 216 del 2003, poiché mancava la volontà di discriminare la ricorrente per la sua appartenenza all’Islam, né tantomeno una condotta indirettamente discriminatoria, lettera b del citato articolo, atteso che l’esclusione della ricorrente dalla selezione era stata giustificata dalla preferenza, espressa dai committenti della società selezionatrice, di collaborare con hostess con capelli, lunghi e sciolti.
La Corte di Appello di Milano non ha condiviso tali argomentazioni, rilevando invece che una condotta è oggettivamente discriminatoria indipendentemente dallo stato psicologico dell’autore ed ha ravvisato la violazione dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 216 del 2003, il quale sancisce il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale, nei confronti di tutti i lavoratori.
Atteso che la ricorrente è stata esclusa dalla selezione per il suo rifiuto di non indossare il velo, che connota la sua appartenenza alla religione islamica, la Corte di Appello ha riconosciuto nella condotta della società di reclutamento una discriminazione diretta in ragione dell’appartenenza religiosa dell’aspirante hostess.
Tuttavia, il giudice di secondo grado ha altresì valutato la possibile presenza di “cause di giustificazione” che, come specificato all’art. 3, comma 3 del decreto in oggetto, avrebbero escluso la discriminatorietà dell’atto posto in essere dalla società appellata.
La norma in esame infatti ammette quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione ed agli altri fattori tipizzati dall’art. 2 della normativa in esame, qualora per la natura o per il contesto dell’attività lavorativa “si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento del’attività lavorativa” e sempreché siano rispettati i principi di proporzionalità, di ragionevolezza e di legittimità del fine perseguito.
Nel caso di specie, la Corte di Appello di Milano non ha ritenuto che il non indossare il velo da parte della ricorrente sia un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento del’attività di volantinaggio e pertanto, in assenza di “cause di giustificazione” , ha riconosciuto nella condotta della società appellata una discriminazione diretta, con conseguente condanna alle spese.

Gilda Giordani

*Di prossima pubblicazione su “Lavoro e previdenza oggi” (www.lpo.it)

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