BREVI RIFLESSIONI DEL PROF. AVV. ANTONIO PILEGGI SUL DIRITTO DEL LAVORO AI TEMPI DEL CORONAVIRUS

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Pubblichiamo la versione estesa dell’intervista rilasciata dal Prof. Antonio Pileggi a www.ilsussidiario.net

Com’è cambiato il diritto del lavoro durante l’emergenza COVID-19?

Stiamo vivendo, in questa “maledetta primavera”, la stagione del diritto del lavoro che potremmo definire dell’emergenza pandemica. Un diritto del lavoro da “stato di guerra”.  Solo nel 1945, durante lo “stato di guerra” dichiarato da “Sua Maestà il Re ed Imperatore”, era stato imposto un divieto di licenziamento alle imprese industriali di alcune province dell’Alta Italia, mentre oggi quel divieto riguarda tutte le imprese sull’intero territorio nazionale “indipendentemente dal numero dei dipendenti”.

Il Governo – che non può deliberare lo “stato di guerra”, che sono le Camere a dover deliberare ai sensi dell’art. 78 Cost. – ha però dichiarato lo “stato di emergenza” ai sensi del Codice della Protezione civile, per imporre in via d’urgenza “azioni di contenimento” del contagio, quali la sospensione di tutte le attività produttive e commerciali non essenziali sull’intero territorio nazionale ed il divieto di spostamenti ed assembramenti, con un impatto potenzialmente devastante sulle imprese e sui lavoratori.

Il diritto del lavoro non aveva in sé gli anticorpi per reagire agli effetti di una pandemia (e dei provvedimenti per contenerla) e si è resa necessaria una terapia d’urto: divieto generalizzato di licenziamento; socializzazione del costo del lavoro; incentivazione dello smart working e dello “stare a casa” (l’assenteismo è ora un valore); protezione dal contagio dei lavoratori nelle aziende non in quarantena e via dicendo.

Ma una volta finita l’emergenza torneremo al diritto del lavoro di prima o è auspicabile una riforma? Cosa ci sta insegnando questa esperienza?

Il Governo non sembra avere ancora pensato al diritto del lavoro del post pandemia, o della convalescenza e della guarigione, essendosi limitato ad adottare misure di sostegno della liquidità delle imprese, ed in particolare prestiti bancari garantiti dallo Stato, sospensione di versamenti tributari e contributivi, ed altro, senza però intervenire strutturalmente sul costo del lavoro, ed in particolare sul cuneo fiscale e contributivo, neanche in via congiunturale.

Inoltre, il diritto del lavoro dell’emergenza pandemica ha enfatizzato tutti i limiti di tutela del diritto del lavoro “normale”, non pandemico. I nodi sono venuti drammaticamente al pettine. La pandemia ha colpito tutti: lavoratori stabili e regolari e lavoratori precari e in nero. In particolare, i lavoratori in nero non hanno potuto certo esibire il lasciapassare delle comprovate esigenze lavorative per uscire di casa durante il coprifuoco imposto all’intera popolazione, e così hanno perso il lavoro, senza poter contare sulla cassa integrazione con causale COVID-19 e di alcuna altra forma di sostengo al reddito, se non del reddito di cittadinanza (ora senza condizionalità), di cui magari già fruivano, e dei buoni spesa del soccorso alimentare. Certo, se dimostrassero di aver lavorato in nero come dipendenti potrebbero far valere la nullità del licenziamento verbale intimato loro in piena pandemia; dovrebbero però passare da un avvocato e poi da un giudice!  E chi se la sente più di questi tempi!

I lavoratori precari, poi, non sono minimamente toccati dal divieto di licenziamento, come ha giustamente osservato Arturo Maresca.

Per fortuna, la figura più emblematica di precario nella gig economy, il rider, è l’unica che si vede scorrazzare per le strade senza timore di essere linciata e senza doversi acquattare nell’erba incolta di un parco al primo bagliore di un lampeggiante.

Anche il diritto del lavoro dell’emergenza epidemiologica, come quello “normale”, tutela ancora una volta soltanto quelli che qualcuno definisce insider, per quanto, in questi anni, si siano smantellate le tutele del diritto del lavoro proprio per renderle accessibili anche agli outsider ed eliminare i dualismi. Ma è sempre più evidente come si trattasse di un pretesto per ridurre le tutele.

Sia pure solo per i lavoratori a tempo determinato comunque è stato adottato un provvedimento giusto e coraggioso. 

Si, ma sarebbe stato forse più coraggioso (e meno ipocrita) non farlo: se non si pensa anche al dopo, il problema dei licenziamenti è stato soltanto rimandato.

Quando venne introdotto, durante lo stato di guerra, il divieto di licenziamento era giustificato dal fatto che, senza quel divieto, i datori di lavoro avrebbero potuto licenziare liberamente i propri dipendenti. L’attuale divieto di licenziamento incide invece su un sistema che già vieta il licenziamento ingiustificato, quindi è vietato il licenziamento anche se, in ipotesi, giustificato.

Come non distingue, nelle statistiche, tra morti “per” e “con” coronavirus, così il Governo non ha distinto, tra licenziamenti “per” e “con” coronavirus, vietando qualsiasi licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nel previsto periodo di 60 giorni.  Si tratta dunque di una semplice moratoria. Sarebbe stato oltremodo impopolare la percezione del nesso tra i draconiani provvedimenti del governo (sospensione “di tutte le attività produttive e commerciali, sull’intero territorio nazionale”) ed una esplosione di licenziamenti.

Quel factum principis, così eccezionale e generale (la sospensione di tutte le attività), però, in base ai principi generali, legittima le imprese a non corrispondere la retribuzione ai propri dipendenti impossibilitati a rendere la prestazione lavorativa per fatto a lui, ed a loro, non imputabile, e, al termine della moratoria, le legittimerebbe a licenziarli per giustificato motivo oggettivo, senza alcun realistico rischio di subirne la reintegrazione.

Tutti i datori di lavoro dedurranno, infatti, di essere reduci dal disastro del COVID-19 (che farà capolino in tutte le lettere di licenziamento, un po’ come l’11 settembre), e, considerata l’involuzione delle tutele del licenziamento (tra “nuovo” art. 18 e contratti a tutele crescenti), la perdita del posto sarà matematica.

Prevede dunque una esplosione di licenziamenti da post COVID-19?

Dico solo una cosa ovvia e banale, ed è che se, dopo la quarantena, le imprese non saranno in grado di ripartire, in tutto o in parte, i licenziamenti saranno inevitabili. I posti di lavoro, mantenuti artificialmente in vita durante la malattia, non sopravviveranno alla convalescenza.

Penso alle tante piccole imprese che non si sono potute avvalere dello smart working ed hanno dovuto chiudere o che hanno subito un crollo del fatturato.

Lo Stato garantisce prestiti alle imprese purché, tra l’altro, assumano “l’impegno a gestire i livelli occupazionali attraverso accordi sindacali” (e se manca l’accordo, niente prestito?), ma con quei prestiti le imprese dovrebbero innanzitutto pagare, magari con “comodo”, ma comunque pagare prima o poi, tasse e contributi che lo Stato non accenna a ridurre.

Il problema del cuneo fiscale e contributivo non è mai stato affrontato seriamente, per quanto da decenni si parli di ridurlo ed il punto sia sempre nel programma elettorale di ogni coalizione di governo.

Sarebbe ora di farlo, magari prima della prossima pandemia.

Da decenni sentiamo dire che ridurre significativamente tasse e contributi è l’unico modo perché tutti li paghino, e per fare emergere il lavoro nero e combattere la precarietà del lavoro. Ed invece, in questi anni si sono ridotte drasticamente le tutele, specie quelle contro il licenziamento, con la stessa motivazione,  ma anziché ridurre i contributi, dal 1° gennaio 2018 si applica al lavoro parasubordinato la stessa aliquota contributiva del lavoro subordinato che era poi il fine perseguito indirettamente attraverso quella trappola acchiappa contributi che è stata la disciplina del lavoro a progetto, non a caso abrogata una volta conseguito per via diretta lo stesso risultato.

Ma esiste un vaccino o una cura per un diritto del lavoro incapace di rispondere alle situazioni di crisi e di emergenza epidemiologica e non? 

Non è facile rispondere, anche perché c’è impresa ed impresa, ed alcune imprese sono uscite rafforzate dalla crisi (si pensi alle imprese dell’e-commerce).

Dico solo che a livello di intero sistema produttivo, dopo l’emergenza epidemiologica, potrebbe porsi, per moltissime aziende, e su larga scala, il problema che talvolta si è posto per singole imprese che rischiavano di fallire e che i lavoratori coalizzati hanno deciso di salvare, ed hanno salvato, associandosi in cooperative, assumendone la gestione  e diventando imprenditori di sé stessi, facendo sacrifici, pur di mantenere in vita l’azienda e dunque il loro posto del lavoro (Workers Buyout): un’operazione che il diritto societario ha sovente incentivato (si pensi alla legge Marcora), ma che l’ordinamento lavoristico sembra ora addirittura ostacolare, impedendo al lavoratore di comportarsi fino in fondo come un socio di un’azienda che la viva come propria.

Se proprio si vuole seguire una logica cogestionale, per uscire dalla crisi, più che imporre l’accordo sindacale per la concessione di prestiti alle imprese o di trattamenti di integrazione salariale in deroga, si potrebbero immaginare in prospettiva soluzioni ispirate ai valori costituzionali richiamati nell’art. 45 e 46 Cost., pensando a forme di coinvolgimento diretto dei lavoratori nella gestione dell’impresa.

In che senso l’ordinamento del lavoro non favorirebbe il Workers Buyout?  In una situazione così drammatica non sarebbe auspicabile la cooperazione di tutti per salvare, con l’azienda, i posti di lavoro?

Negli ultimi venti anni i rapporti associativi o, comunque collaborativi, che consentivano ad una persona di  collaborare nell’impresa non in veste di lavoratore subordinato ma come socio o associato, o ad altro titolo, sono stati “massacrati” dal legislatore per il timore (assai spesso fondati) di abusi e di frodi ma, soprattutto, per evitare fughe dalla subordinazione onnivora e spremere sul lavoro, comunque prestato, gli stessi contributi previdenziali imposti al lavoro subordinato.

Quanto ai soci delle cooperative, la legge n. 142 del 2001 (la prima legge promossa Biagi all’epoca consulente del Ministro Treu) nella stesura originaria aveva previsto che Il socio lavoratore di cooperativa, accanto al rapporto associativo, dovesse “instaurare” anche un “distinto” rapporto lavorativo, in forma subordinata o autonoma, con i “relativi effetti di natura fiscale e previdenziale”. In caso di crisi, stante la duplicità dei rapporti (associativo e lavorativo), è possibile al massimo, la “riduzione temporanea dei trattamenti economici integrativi”, ove l’assemblea deliberi “un piano di crisi aziendale, nel quale siano salvaguardati, per quanto possibile, i livelli occupazionali”, ma nulla di più (non sarebbe possibile scendere al di sotto dei minimi retributivi previsti dai contratti collettivi, come precisato dalla Suprema Corte).

Lo spirito mutualistico è stato così “violentato”, e, per il timore di abusi, si è buttato il bambino con l’acqua sporca, secondo autorevoli commentatori, ed in senso di appartenenza all’azienda è venuto meno, mentre è cresciuto il contenzioso.

Quanto ai rapporti di associazione in partecipazione (assoggettati dalla legge Biagi e dalla Legge Fornero  ad una serie di norme antielusive simili a quelle previsti per i soci delle cooperative) il Jobs act (art. 53 D.lgs. n. 81 del 2015) ha tagliato la testa al toro prevedendo che “Nel caso in cui l’associato sia una persona fisica l’apporto di cui al primo comma non può consistere, nemmeno in parte, in una prestazione di lavoro” (nuovo art. 2549 c.c.).

Ma è ipotizzabile una inversione di tendenza?

Non mi sembra un tema all’ordine del giorno, ma è certamente auspicabile che il lavoro sia tutelato in tutte le sue forme ed applicazioni, come del resto previsto dall’art. 35 Cost., e non solo in quelle che garantiscono il maggior gettito contributivo per le casse dello Stato, e che sia ripristinata la centralità del rapporto associativo nelle cooperative di produzione e lavoro, considerato che con l’art. 45 Cost. “la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata” Ed è  necessario, più in generale, che lo Stato  non strozzi ed indebiti le aziende, costringendole a chiudere ad ogni crisi, tanto più se pandemica, per l’insostenibilità del costo del lavoro, pur di mantenere le sterminate clientele della politica negli apparati pubblici, nella sanità (compresa quella convenzionata), nelle società partecipate e via dicendo.

È indispensabile ridurre gli sprechi per trovare le risorse necessarie a ridurre strutturalmente il cuneo fiscale e contributivo, e non congiunturalmente. E, peraltro, nemmeno una riduzione congiunturale sembra essere stata prevista per favorire la ripartenza delle imprese dopo il lockdown.

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