AL LICENZIAMENTO DEL DIRIGENTE, IMPUGNATO PER “INGIUSTIFICATEZZA”, NON SI APPLICA IL REGIME DECADENZIALE DI CUI ALL’ART. 6 DELLA L. 604/1966 E DI CUI ALL’ART. 32, COMMA 2 DELLA L. N. 183/2010 – Corte di Appello di Roma, Sezione Lavoro, 8 luglio 2016, n. 3977, pres. rel. F. Centofanti
La Corte di Appello fornisce una necessaria chiarificazione in materia di applicabilità del regime di decadenza, per mancata impugnativa nel termine di 60 giorni e di proposizione del ricorso nei successivi 180, nel caso di licenziamento del dirigente, di cui si lamenta la sua “ingiustificatezza” e non la invalidità in genere.
La vicenda riguarda l’impugnazione di una sentenza del Tribunale di Velletri, la quale ha respinto la domanda di un dirigente volta ad ottenere la declaratoria di ingiustificatezza del recesso, risalente all’agosto 2012, con il conseguente pagamento dell’indennità supplementare ex c.c.n.l. Dirigenti aziende industriali. Secondo il Tribunale, era intervenuta la decadenza di cui all’art. 32, comma 2, l. n. 183/2010, non avendo il lavoratore provveduto ad impugnare nei termini previsti da tale disposizione.
Il dirigente si rivolge, quindi, alla Corte di appello contestando l’applicabilità ai dirigenti di azienda (dopo la novella ex l. n. 183/2010) del regime di decadenza previsto dall’art. 6, l. n. 604/1966 in materia di impugnativa dei licenziamenti.
La Corte di appello di Roma ritiene fondato il motivo di doglianza, fornendo una esauriente disamina della controversia.
Secondo la Corte, infatti, l’art. 6 della l. 604/1966, nel testo antecedente la novella ex art. 32, comma 1, l. n. 183/2010, disponeva che il licenziamento dovesse essere impugnato, a pena di decadenza, anche in sede extragiudiziale, entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione. Tale regime era pacificamente ritenuto inapplicabile ai dirigenti, che agissero per la condanna datoriale al pagamento dell’indennità supplementare prevista dal contratto collettivo, in quanto si trattava di categoria di prestatori sottratta alle norme limitative dei licenziamenti individuali poste dalla legge n. 604/1966 (Cass. n. 1641/1995).
Come come noto, l’art. 32 della legge n. 183 citata, al comma 1 ha sostituito l’art. 6 della legge n. 604 e, nel ribadire il termine di decadenza di 60 giorni per l’impugnazione extragiudiziale del licenziamento, prevede ora il termine ulteriore di 180 giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale. Per di più, al comma 2 del predetto art. 32 è previsto che le disposizioni di cui al citato art. 6 della legge 604 si applicano “anche a tutti i casi di invalidità del licenziamento”.
Evidentemente il Tribunale ha ritenuto che la nuova legge del 2010 abbia esteso il regime decadenziale anche al caso di dirigenti, indipendentemente dalla categoria legale di appartenenza del lavoratore.
Ebbene, sostengono i Giudici d’appello, questa interpretazione non può essere condivisa.
Con la sentenza n. 22627/2015 la Cassazione ha statuito che il nuovo regime debba trovare sempre applicazione quando si deduce l’invalidità del licenziamento, e ciò anche di prestatori esclusi (come il dirigente) dall’ambito di applicazione della legge 604 limitativa dei licenziamenti (nella specie la causa concerneva un dirigente che aveva prospettato la nullità del recesso in quanto discriminatorio).
Si sarebbe, dunque, al cospetto di un’estensione anche soggettiva dell’ambito applicativo della decadenza.
La Corte d’appello non si discosta dall’interpretazione della Cassazione, tuttavia rileva come l’estensione soggettiva dei confini dell’istituto debba riguardare, in aderenza alla lettera della novella ed al pronunciato del Supremo Collegio, i casi di invalidità del licenziamento, ossia i casi di sua difformità, più o meno grave, dal modello legale.
L’invalidità, quindi, abbraccia i licenziamenti nulli perché contrastanti con specifici divieti di legge, inefficace perché verbali (in violazione dell’art. 2, comma 1, L. 604/66), privi di giusta causa e giustificato motivo (in violazione dell’art. 3, L. 604/66) o anche soltanto viziati dal mancato rispetto delle regole procedimentale di cui all’art. 7 Stat. Lav.; tutte ipotesi nelle quali l’atto espulsivo datoriale si pone in contrasto con norme di legge.
Viceversa, conclude la Corte d’appello, non può in nessun caso qualificarsi come invalido il licenziamento del dirigente, privo di “giustificatezza” a norma dei contratti collettivi di settore (nella specie, rileva il c.c.n.l. Dirigenti imprese industriali, art. 22). In questo caso l’illecito è solo convenzionale e l’atto datoriale che lo riflette integra soltanto un inadempimento contrattuale, così come di esclusiva regolamentazione contrattuale è la tutela in tal caso apprestata.
Ne consegue che la decadenza ex artt. 6 L. 604/66 e 32, comma 2, L. 183/10 non opera in questa evenienza, essendo l’istituto di stretta interpretazione, insuscettibile di applicazione oltre le ipotesi specificamente contemplate, che sono appunto i licenziamenti invalidi nel senso sopra descritto.
Peraltro, sarebbe addirittura eccentrica la previsione di un regime legale di decadenza, a presidio di diritti ed azioni che hanno fonte esclusivamente pattizia e che le parti sociali sono dunque libere di variamente conformare, prevedendo, se del caso, nel quadro del reciproco bilanciamento di interessi, decadenze convenzionali.
Poiché nella fattispecie il dirigente ha azionato la sola tutela convenzionale, avendo fatto valere l’ingiustificatezza del recesso e chiesto l’indennità supplementare, la mancata impugnazione del recesso non comporta alcuna decadenza.
In conclusione, decidendo nel merito, la Corte ha dichiarato ingiustificato il licenziamento e condannato il datore di lavoro al pagaento dell’indennità supplementare ex art. 19 c.c.n.l. pro-tempore vigente.
Almerindo Proietti Semproni
*Di prossima pubblicazione su “Lavoro e previdenza oggi” (www.lpo.it)