A PROPOSITO DI UN RECENTE CONTRASTO GIURISPRUDENZIALE CIRCA L’INTERPRETAZIONE ED APPLICAZIONE DELL’ART. 2103 COD. CIV. COME MODIFICATO DAL JOBS ACT – Tribunale di Ravenna, Sezione Lavoro, 30 settembre 2015, n. 174, est. Riverso

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Contestualmente al Tribunale di Roma *, il Tribunale di Ravenna si pronuncia, a propria volta, in merito equivalenza delle mansioni attribuite al lavoratore ex art. 2103 Cod. Civ. come modificato dall’art. 3, d.lgs. n. 81 del 2015, dando però una lettura diversa della norma.

Rapporto di lavoro – Ius variandi – Mansioni inferiori – Art. 13, legge n. 300 del 1970 – Art. 3, d.lgs. n. 81 del 2015 – Applicabilità ratione temporis – Inammissibilità
Con sentenza n. 174 del 30 settembre 2010, il Tribunale di Ravenna, contestualmente alla sentenza n. 8195 del 2015 resa dal Tribunale di Roma, si è pronunciato a propria volta in merito ad una fattispecie del tutto analoga a quella sottoposta all’esame del Giudice romano.
Trattasi, precisamente, del caso di un lavoratore che lamenta ben due periodi di demansionamento verificatisi, il primo, tra il 1° marzo 2013 ed il 25 agosto 2013 e, il secondo, dal novembre 2013 sino alla data di proposizione del ricorso ex art. 700 Cod. Proc. Civ.. Periodo, quest’ultimo, in relazione al quale il Giudice monocratico, al fine di dirimere la controversia insorta, si è preliminarmente interrogato sulla possibilità di invocare in giudizio, oppure no, la norma permissiva contenuta nel nuovo testo dell’art. 2103 Cod. Civ., come modificato dall’art. 3, d.lgs. n. 81/2015.
Anzitutto, occorre rilevare, come già è stato rilevato per il provvedimento romano, che anche il provvedimento ravennate si connota per la rigorosità dell’iter logico-giuridico seguito e, sopratutto, per la fedele applicazione dei canoni ermeneutici ex art. 101, comma 2, Cost. ed art. 12, prima parte, delle Disposizioni preliminari al Codice Civile.
Ciò, però, con esiti contrastanti. Infatti, il Tribunale di Ravenna ha ritenuto di non dover fare applicazione dell’art. 2103 Cod. Civ., nel testo da ultimo in vigore, per ciò che “il fatto generatore del diritto allegato nel giudizio (il demansionamento) si è prodotto nel vigore della legge precedente”, cioè a novembre 2013, laddove la nuova disciplina delle mansioni di cui all’art. 3, d.lgs. n. 81/2015 è entrata in vigore, come ormai noto, in data 25 giugno 2015.
Dunque, per il Giudice ravennate a rilevare non sarebbe tanto la “permanenza” dell’illecito consistente nel demansionamento del lavoratore, quanto il momento in cui si verifica l’atto di demansionamento stesso. Del resto, ha proseguito il medesimo Giudice, né nell’art. 3 d.lgs. n. 81/2015 né nel nuovo art. 2103 Cod. Civ. è dato ravvisare alcun elemento testuale che possa legittimarne un’applicazione “retroattiva” o, comunque, “intertemporale”.
Ciononostante, il Tribunale ravennate ha ritenuto di dover rigettare il ricorso proposto dal lavoratore sulla base di un rilievo che certamente non mancherà di far sentire la sua eco anche in sede di futura applicazione del nuovo art. 2103 Cod. Civ., id est le clausole previste dalla contrattazione collettiva in tema di classificazione del personale. In particolare, il Tribunale di Ravenna ha evidenziato, sia pure con riferimento al previgente testo dell’art. 2103 ult. cit., che “se è vero che l’art. 2013 c.c. è norma di garanzia individuale, a tutela della professionalità di ogni singolo lavoratore, anche rispetto alla classificazione collettiva, secondo il meccanismo dell’inderogabilità in peius, è anche vero che le regole sull’inquadramento professionale sono scritte dalle parti collettive”.
Ne deriva, pertanto, che al fine di accertare se al ricorrente, cui era stato riconosciuto il VI Livello del CCNL applicato, fossero state attribuite mansioni inferiori, con conseguente depauperamento professionale, occorreva verificare preliminarmente se in quelle nuove mansioni fossero riscontrabili, oppure no, le caratteristiche attribuite dalle parti sociali al VI Livello del CCNL applicato, cioè se quello svolto dal ricorrente fosse un “lavoro ad elevato contenuto specialistico, in autonomia, con responsabilità dei risultati”. Verifica che, nel caso di specie, si è rivelata a favore della società convenuta.
La nuova disciplina delle mansioni rinvia espressamente alla contrattazione collettiva, sia pure per la sola definizione di “ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale”. Sennonché, ad un attento esame, tale rinvio si rivela essere “cieco”, posto che il Legislatore del 2015 non si è preoccupato di verificare, preliminarmente, se l’attuale struttura e gli attuali contenuti della contrattazione collettiva siano abbastanza maturi per assolvere ad un simile compito.
Infatti, se si assume che l’impiego della preposizione “al”, che precede l’espressione “livello di inquadramento inferiore”¸ si riferisca, come pure affermato da parte della dottrina, soltanto al livello di inquadramento immediatamente inferiore e non già a tutti i livelli inferiori possibili (operazione che, semmai, sarebbe stata avallabile qualora fosse stata impiegata la diversa preposizione “a”), ciò presupporrebbe che, in un’ottica di maggior tutela dei lavoratori, i livelli di inquadramento previsti dalla contrattazione collettiva siano tutti intrinsecamente concatenati tra loro per evitare “dispersioni” di figure professionali e di know how.
In ogni caso, il rinvio alla contrattazione collettiva è destinato ad operare fintanto che i lavoratori non intendano concludere accordi individuali con il proprio datore di lavoro in sede protetta, ove è anche possibile pervenire, nello spirito della legge, ad una revisione della retribuzione precedentemente corrisposta, purché “nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione”, ovvero finalizzata “all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”. In questo modo, però, la contrattazione collettiva rischia di essere depauperata di quelle finalità sociali e di welfare, che pure sembravano prendere piede in alcuni importanti rinnovi contrattuali di settore, le quali rischiano ora di essere interamente rimesse alla volontà del datore di lavoro e dei lavoratori.
E così, il binario individuale, pur affiancandosi a quello collettivo, non sembrerebbe però essere perfettamente parallelo a quest’ultimo; imperfezione che pare presagire un deragliamento del treno costituito dalla rappresentanza sindacale, stante l’inevitabile accentuazione della discrepanza tra rappresentatività storica del sindacato ed effettivo consenso della base dei lavoratori.

Francesco Marasco

* La sentenza del Tribunale di Roma cui ci si riferisce, id est la n. 8195 del 2015, è già stata commentata in questa stessa Rivista.

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